AL LAGO ROSSO MI SONO SEDUTO A BERE LA NEBBIA

Sulle rive del Lago Rosso mi sono seduto a bere la nebbia.

Una magia sottile permeava la conca; un’aura pallida; un incantesimo arcano e sfuggente. La cascata lasciava cadere brandelli di anime stanche nel precipizio mentre gli abeti si aggrappavano alle sue rocce. Larici dal fusto allungato a caccia di luce, dorate le foglie d’autunno, allungavano scheletriche dita nell’aria persa.

E attorno era il silenzio. L’acqua scivolava senza quasi far rumore; gli uccelli non volavano nella nebbia. Solo il rumore dei nostri passi sulla terra umida, sul suolo greve, sul cammino in salita dei morti, sulla scala per il lago di sangue.

E lui era arrivato silente, il signore della nebbia. Fermo sul pendio, ci scrutava. Immobile. Dietro di lui, l’ammasso lattiginoso delle legioni di nebbia. Ci fissava immoto, il camoscio. Poi dette il suo assenso, si voltò, e svanì nella foschia diffusa, lontano.

Praterie dorate macchiate di vermiglio fin dove l’occhio poteva vedere. Oltre, solo cuscini di nebbia. E, in mezzo, il lago. Rosso del riflesso d’erbe sanguigne, scivolava stracco nella corrente.

Sulle sue rive mi sono seduto a bere la nebbia.

E davanti a me danzavano visioni fantasma di cervi. Correvano nell’acqua bassa alzando schizzi vermigli nel loro andare fatale. Bramivano tuoni, scivolavano nei fulmini sull’erba incendiata.

Ma non c’era nessuno. E il mondo finiva nel lago. Gli scabri picchi del Rocciavrè e della Cristalliera si erano nascosti dietro la nebbia. Quel giorno, il mondo finiva lì, tagliato di nebbia come una vecchia carta strappata. E il lago era l’Averno. Oltre, il passo era concesso solo alle ombre, lattiginosi fantasmi nella nebbia di latte.

E così mi sono seduto. E sulle rive del Lago Rosso, ho bevuto la nebbia.

Σ.