L’estate del 480 a.C. volgeva al suo termine quando un piccolo contingente di fanteria greca guidato dal re spartano Leonida si attestava presso le Termopili bloccando la strada alle sterminate orde che Serse guidava alla conquista della Grecia. Gli opliti avevano risistemato un antico muro che chiudeva il passo e, per dei giorni, resistettero, infliggendo gravi perdite a un esercito numericamente molto superiore.[1]
Volontà, decisione, migliore armamento e coordinazione: queste le chiavi che resero possibile la resistenza. Ma, soprattutto, la capacità di scegliere il terreno di scontro. In una strettoia, pochi possono tener testa a molti. E, in un’epoca in cui ancora non esistevano la polvere da sparo e l’aviazione, un passo ben presidiato dal nemico poteva significare la fine di una campagna militare.
Ma i Greci, alla fine, vennero sconfitti. Sconfitti con l’unica arma possibile – l’unica che le falangi oplitiche temessero davvero: l’enkýklosis, l’accerchiamento.
Battaglie di questo genere si risolvono, di norma, con l’arrivo di un trickster,[2] di un ingannatore, di qualcuno che, operando al di fuori della morale comune (dell’etica della battaglia campale, nel nostro caso), ne scioglie l’impasse.
E il trickster, alle Termopili è Efialte, un Greco della zona che “pensando di ottenere una grande ricompensa da parte del re”[3], racconta a Serse dell’esistenza di un sentiero, usato dai pastori per portare al pascolo le capre, che aggira lo stretto delle Termopili. Il Persiano accoglie il suo consiglio e lo invia nottetempo su quello stesso sentiero come guida dei suoi soldati migliori, il contingente degli Immortali capitanato da Idarne.
All’alba, Leonida è preso tra due fuochi: Serse col grosso dell’esercito da un lato; Idarne con gli Immortali dall’altro. Non c’è via di fuga.
Ebbene, anche la Valle di Susa ebbe le sue Termopili, ben meno famose, nonostante l’importanza della battaglia che qui si svolse, nel 773 d.C. tra le truppe dell’ultimo re longobardo Desiderio e quelle dell’astro nascente della dinastia carolingia, Carlo, detto poi Magno.
È un’iscrizione su un masso erratico nella corte del Castrum Capriarum (detto comunemente Castello del Conte Verde) a preservarne la memoria.
SU QUESTO DOSSO ROCCIOSO
PLASMATO NEI MILLENNI
DAL GHIACCIAIO QUATERNARIO VALSUSINO
CARLO MAGNO RE DEI FRANCHI
SOSTÒ COI SUOI CONDOTTIERI
NEL 773 D.C.
DOPO LA BATTAGLIA DELLE CHIUSE D’ITALIA
CHE POSE FINE
AL SECOLARE REGNO DEI LONGOBARDI
E SEGNÒ L’INIZIO
DEL SACRO ROMANO IMPERO.
Qui, dove ora sorgono i ruderi del castello e la cava di pietra, tra gli scabri picchi del Caprasio da un lato e del Pirchiriano dall’altro, all’epoca erano poste le clusae langobardorum, il cui nome ancora s’affaccia nel toponimo di Chiusa di San Michele. L'”arduo muro / che Val di Susa chiude, e dalla franca / la longobarda signoria divide”[4] non era, in realtà, un muro unico, ma piuttosto un insieme di fortificazioni presidiabili secondo il concetto del limes (‘confine’) elaborato dai Romani.
Qui s’attestarono i Longobardi, sicuri di poter agilmente respingere l’esercito franco. E la battaglia delle Chiuse, così com’è narrata nell’Adelchi del Manzoni, presenta non pochi punti di contatto con la narrazione erodotea delle Termopili, forse proprio in virtù del tipo di battaglia che vi si combatté.
In primis, la presenza di una fortificazione a difesa della strettoia e la possibilità di tenere anche in pochi la posizione: “e questi monti / che il Signor fabbricò, con le sue torri / e i battifredi: ogni più picciol varco / chiuso è di mura, onde insultare ai mille / potrieno i dieci, ed ai guerrier le donne”.[5]
In secondo luogo, la presenza del trickster.
“I popoli biondi [tra cui i Longobardi] danno grande importanza alla libertà e sono coraggiosi e indomiti in battaglia; valorosi e impetuosi, considerano una vergogna qualsiasi esitazione […] Cadono facilmente negli agguati, specie sui fianchi e nelle retrovie del loro schieramento, perché non si curano assolutamente di collocare posti di sorveglianza né di altre misure di sicurezza”.[6] Così recita un manuale di guerra bizantino. Ed è proprio dall’esarcato di Ravenna, allora ancora sotto il potere di Costantinopoli, che parte il trickster: un diacono di nome Martino, mandato a spronare Carlo alla battaglia – un Carlo che, ormai, visti inutili i tentativi di prendere la strettoia, già meditava di ritirarsi e di abbandonare, suo malgrado, il papa, che l’aveva chiamato in soccorso. Martino giunge alle Chiuse, e, non potendo attraversarle, si infila tra i monti alla ricerca di un sentiero che lo conduca, aggirando la posizione longobarda, al campo dei Franchi. Vale la pena riportare, qui, il resoconto che ne fa a Carlo.
Dio gli accecò, Dio mi guidò. Dal campo
inosservato uscii; l’orme ripresi
poco innanzi calcate; indi alla manca
piegai verso aquilone, e abbandonando
i battuti sentieri, in un’angusta
oscura valle m’internai: ma quanto
più il passo procedea, tanto allo sguardo
più spaziosa ella si fea. Qui scorsi
gregge erranti e tuguri: era codesta
l’ultima stanza de’ mortali. Entrai
presso un pastor, chiesi l’ospizio, e sovra
lanose pelli riposai la notte.
Sotto all’aurora, al buon pastor la via
addimandai di Francia. – Oltre quei monti
sono altri monti, ei disse, ed altri ancora;
e lontano lontan Francia; ma via
non avvi; e mille son que’ monti, e tutti
erti, nudi, tremendi, inabitati,
se non da spirti, ed uom mortal giammai
non li varcò. – Le vie di Dio son molte,
più assai di quelle del mortal, risposi;
e Dio mi manda. – E Dio ti scorga, ei disse:
indi, tra i pani che teneva in serbo,
tanti pigliò di quanti un pellegrino
puote andar carco; e, in rude sacco avvolti,
ne gravò le mie spalle: il guiderdone
io gli pregai dal cielo, e in via mi posi.
Giunsi in capo alla valle, un giogo ascesi,
e in Dio fidando, lo varcai. Qui nulla
traccia d’uomo apparia; solo foreste
d’intatti abeti, ignoti fiumi, e valli
senza sentier: tutto tacea; null’altro
che i miei passi io sentiva, e ad ora ad ora
lo scrosciar dei torrenti, o l’improvviso
stridir del falco, o l’aquila, dall’erto
nido spiccata sul mattin, rombando
passar sovra il mio capo, o, sul meriggio,
tocchi dal sole, crepitar del pino
silvestre i coni. Andai così tre giorni;
e sotto l’alte piante, o ne’ burroni
posai tre notti. Era mia guida il sole;
io sorgeva con esso, e il suo viaggio
seguia, rivolto al suo tramonto. Incerto
pur del cammino io gìa, di valle in valle
trapassando mai sempre; o se talvolta
d’accessibil pendio sorgermi innanzi
vedeva un giogo, e n’attingea la cima,
altre più eccelse cime, innanzi, intorno
sovrastavanmi ancora; altre, di neve
da sommo ad imo biancheggianti, e quasi
ripidi, acuti padiglioni, al suolo,
confitti; altre ferrigne, erette a guisa
di mura, insuperabili. – Cadeva
il terzo sol quando un gran monte io scersi,
che sovra gli altri ergea la fronte, ed era
tutto una verde china, e la sua vetta
coronata di piante. A quella parte
tosto il passo io rivolsi. – Era la costa
oriental di questo monte istesso,
a cui, di contro al sol cadente, il tuo
campo s’appoggia, o sire. – In su le falde
mi colsero le tenebre: le secche
lubriche spoglie degli abeti, ond’era
il suor gremito, mi fur letto, e sponda
gli antichissimi tronchi. Una ridente
speranza, all’alba, risvegliommi; e pieno
di novello vigor la costa ascesi.
Appena il sommo ne toccai, l’orecchio
mi percosse un ronzio che di lontano
parea venir, cupo, incessante; io stetti,
ed immoto ascoltai. Non eran l’acque
rotte fra i sassi in giù; non era il vento
che investia le foreste, e, sibilando
d’una in altra scorrea, ma veramente
un rumor di viventi, un indistinto
suon di favelle e d’opre e di pedate
brulicanti da lungi, un agitarsi
d’uomini immenso. Il cor balzommi; e il passo
accelerai. Su questa, o re, che a noi
sembra di qui lunga ed acuta cima
fendere il ciel, quasi affilata scure,
giace un’ampia pianura, e d’erbe è folta
non calcate in pria. Presi di quella
il più breve tragitto: ad ogni istante
si fea il rumor più presso: divorai
l’estrema via: giunsi sull’orlo: il guardo
lanciai nella valle, e vidi… oh! Vidi
le tende d’Israello, i sospirati
padiglion di Giacobbe: al suol prostrato,
Dio ringraziai, li benedissi, e scesi.[7]
Carlo si rianima alla notizia del sentiero, e, come aveva fatto Serse, manda i suoi migliori guerrieri, il reparto di cavalleria guidato da Eccardo, insieme col diacono, ad aggirare le Chiuse.
Presi di sorpresa alle spalle, i Longobardi si disperdono, e Carlo può dare inizio alla campagna d’Italia che lo porterà a diventare, l’anno successivo, dopo la capitolazione di Pavia, capitale dei Longobardi, Rex Francorum et Langobardorum et Patricius Romanorum, e a stringere i primi rapporti d’amicizia col papato, ponendo così le fondamenta per l’incoronazione a imperatore, a Roma, in quella fatidica notte di Natale dell’800.
Σ.
[1] Erodoto 7.201 ss.
[2] Rubo il termine agli studi di mitologia.
[3] Erodoto 7.213.
[4] Manzoni, Adelchi, atto I, 4-6.
[5] Manzoni, Adelchi, atto II, 38-42.
[6] Maurizio, Strategikon, in Gastone Breccia (a c. di), «L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz», Einaudi, Torino 2009, pp. 155-156. Corsivo mio.
[7] Manzoni, Adelchi, atto II, 167-256.