Della pianta dei druidi e dell’invidia di Loki

Per i popoli di stirpe germanica, Balder, figlio di Odino e della dèa Frigg, è il dio della luce e della bellezza. Saggio, puro, misericordioso, un unicum tra gli Asi (gli dèi). In un pantheon dove domina la violenza, Balder, così diverso, si guadagna l’amore di tutti, tranne del suo opposto: Loki, il trickster, il mentitore, il distruttore. Per il solo fatto di esistere, Balder è un affronto agli occhi di Loki. E così, una notte, il dio splendente cominciò a fare strani incubi… Sognava che la sua vita era in pericolo, e ne mise a parte gli Asi. Riuniti in convegno, gli dèi decisero di chiedere per Balder la protezione da ogni pericolo. Fu sua madre, Frigg, a rivolgersi agli elementi e agli oggetti del creato chiedendo un solenne giuramento: che mai avrebbero recato danno al figlio. Ottenne la promessa dell’acqua e del fuoco, dei metalli e delle pietre, della terra, del legno, delle malattie, dei quadrupedi, degli uccelli, del veleno, dei serpenti. E una grande festa si tenne tra gli Asi per celebrare i patti sanciti. Posto Balder al centro del consesso, a turno gli altri Asi si divertirono a bersagliarlo con frecce e proiettili vari, a percuoterlo, a picchiarlo. Ma niente sortiva effetto. Nulla colpiva il dio, protetto dal sacro giuramento di ogni cosa.

Ma l’invulnerabilità del rivale non piacque a Loki. Ingannatore, mendace, assunse sembianze femminili e si presentò davanti a Frigg domandandole, con finta curiosità, cosa stessero facendo gli Asi.

“Cercano di colpire Balder – rispose – ma nulla può ferirlo: ho ricevuto il giuramento di tutte le cose”.

La donna insistette: “Proprio tutte le cose hanno giurato?”

E Frigg cadde ingenuamente nella trappola.

“A ovest, oltre Valhöll, cresce un germoglio chiamato vischio: mi è sembrato troppo giovane per farlo giurare…”

Loki aveva quello che gli serviva. Sparì all’istante, staccò un ramo di vischio e tornò alla festa degli dèi. Lì trovò Hōdh, il fratello cieco di Balder, che se ne stava in disparte.

“Perché non prendi parte al gioco?” gli domandò mellifluo l’ingannatore.

“Non ho un’arma – rispose – né sono in grado di vedere dove si trovi Balder”.

“Lascia che io guidi la tua mano – fece Loki consegnandogli il vischio. – Colpiscilo con questa bacchetta”.

La freccia scoccò veloce dall’arco e Balder cadde a terra morto.

Loki verrà punito, ma ormai i semi del male sono stati interrati. La morte di Balder è solo l’inizio del Ragnarök, la caduta degli dèi. Ma il vischio è anche una pianta di resurrezione. Dopo la grande distruzione a Balder e a Hōdh sarà concesso di tornare in vita, di allontanarsi da Hel e tornare sulla Terra rigenerata.

Quello di Balder è solo uno dei miti che chiamano in causa il vischio. Prima, però, di vederne altri, forse è bene dare un piccolo inquadramento botanico a questa strana pianta.

Viscum album è un arbusto dioico di forma sferoidale che cresce come epifita su alcuni alberi. Rami e fusto sono di colore verde-grigiastro, le foglie, sempreverdi, sono opposte e prive di picciolo, coriacee e carnose, di forma oblungo-lanceolata e con 3-5 nervature. In febbraio-marzo compaiono piccoli fiori giallo-verdi a impollinazione entomofila e tra il tardo autunno e l’inizio dell’inverno maturano le bacche, bianche e cerose, simili a perle. I semi sono rivestiti di una sostanza appiccicosa (forse è più appropriato dire vischiosa) detta viscina e, quando vengono depositati su un ramo dopo essere passati attraverso l’apparato digerente di un qualche uccello, germinano e penetrano il legno della pianta ospite con gli austori, in grado di succhiarne la linfa (è infatti una pianta semiparassita).

Viscum album è diviso in 4 taxa diversi. Normalmente si parla di sottospecie, ma non c’è accordo fra i botanici, tanto che alcuni preferiscono usare il termine generico di host race, razza. La divisione è fatta in base alla pianta ospite che ciascun taxon predilige:

–           Viscum album abietis cresce su alberi del genere Abies;

–           Viscum album austriacum su quelli del genere Pinus;

–           Viscum album album su una varietà di caducifoglie;

–           e poi c’è Viscum album creticum, che cresce solo su quell’isola così ricca di endemismi che è Creta, su piante di Pinus halepensis ssp. brutia.

Quando ebbe termine l’ultima glaciazione, questi alberi colonizzarono i nuovi terreni, e il vischio ben presto li seguì, portato dagli uccelli migratori che trascorrono la bella stagione nel Nord Europa per venire poi a svernare in Italia, Spagna, Turchia e sul Caucaso. Trascorrono la loro vita, di fatto, sull’areale del Vischio. E anzi, si potrebbe quasi dire che siano essi stessi a “coltivarlo”, come fanno i pipistrelli con i cactus mesoamericani. Nutrendosi delle bacche e spostandosi, riescono a disperdere i semi, tramite le loro deiezioni, fino a una distanza di 20 Km dalla pianta madre. Su più grandi distanze la dispersione è un po’ meno efficiente ma tutt’altro che fortuita: bisogna che il seme, grazie alla viscina collosa che lo riveste, si attacchi alle zampe o alle piume di qualche volatile di passaggio e, quando questi se ne accorgerà, magari a kilometri e kilometri di distanza, e lo gratterà via su un altro albero, ecco che potrà finalmente germogliare.

Viste le caratteristiche peculiari del vischio, sarà più facile comprendere come dai Celti la pianta fosse tenuta in grande considerazione. Pianta magica per eccellenza, si diceva che crescesse, inviata direttamente dal cielo, laddove un fulmine colpiva un albero. Il vischio cresce raramente sulle querce, alberi sacri legati ai culti druidici e al dio Esus. Il vischio che parassitava il rovere, pertanto, veniva considerato un segno divino, lo sperma della sacra quercia, perché si credeva che le bacche fossero gocce del liquido seminale del dio. Le bacche, poi, si sviluppano in 9 mesi, quanti ne occorrono a un feto umano, e si raggruppano in numero di 3, numero sacro per svariate culture. Inoltre, cresce rivolto a Nord, verso la Stella Polare. Tanti i significati simbolici di questa pianta che non tocca mai terra, legata al mondo degli uccelli e dell’aria. Le informazioni sulla religiosità dei Celti, purtroppo, ci sono giunte in maniera sparsa e frammentaria e dobbiamo ringraziare l’animo enciclopedico di Plinio il vecchio se ci è stata tramandata la memoria delle loro cerimonie inerenti al vischio. Racconta l’erudito romano che per i druidi non vi fosse nulla di più sacro del vischio e del rovere su cui esso cresce. Le querce rivestivano per loro un’estrema importanza, tanto che i boschi sacri (nemeton) che essi sceglievano erano spesso boschi di rovere (drunemeton). In pratica, chiosa, ritenevano come inviato dal cielo, come segno che l’albero era stato scelto dalla divinità stessa, tutto ciò che cresceva sulle piante di rovere. Il vischio, come si diceva, è raro a trovarsi sul rovere, pertanto veniva raccolto con grande devozione. Si preparavano, secondo il rituale, il sacrificio e il banchetto ai piedi dell’albero, quindi venivano fatti avvicinare due tori bianchi a cui per la prima volta erano state legate le corna. Il druido, vestito di bianco, saliva sull’albero, tagliava il vischio con un falcetto d’oro e lo raccoglieva in un panno candido. Venivano quindi immolate le vittime e si chiedeva al dio che il suo dono (il vischio) fosse reso propizio.

La mitologia (e l’annessa ritualità) legata al vischio, come s’è visto, è abbondante nel Nord Europa, tra le popolazioni di stirpe germanica e celtica, ma è pressoché assente fra i popoli italici. Spetta a un cittadino romano di stirpe celtica il merito di aver introdotto la pianta in uno dei passi letterari più importanti del nascente impero romano, e il civis in questione non è tra i meno noti: Publio Virgilio Marone, nato nella Pianura Padana, in quella che un tempo era stata la Gallia cisalpina. Il vischio è una pianta che apre il mondo sotterraneo, che allontana i demoni e conferisce l’immortalità, ed ecco che il poeta della corte di Augusto ne fa figura di quel ramo d’oro che il suo protagonista, Enea, userà per accedere agli Inferi e incontrare il padre Anchise, per bocca del quale verrà cantata la gloria (allora ancora da venire) del Princeps e della sua famiglia. Quello stesso ramo d’oro sotto la cui egida, secoli più tardi, Fraser porrà tutto il suo lavoro di antropologo.

“Quale suole nei boschi con il freddo invernale verdeggiare il vischio di nuova fronda (ché l’albero fa germogliare un seme non suo) e circondare i tronchi rotondi con un frutto giallastro, tale era l’aspetto dell’oro frondeggiante sul leccio ombroso, così crepitavan le foglie nel vento leggero”.

Dice ancora Plinio, a margine del testo citato poc’anzi, che in lingua celtica il nome del vischio significa “che guarisce tutto”, e che i druidi ritenevano che, preso in pozione, desse la capacità di riprodursi a qualsiasi animale sterile e che fosse un rimedio contro tutti i veleni. Da notare, a testimonianza della lunga tradizione d’uso nella medicina popolare, come ancora oggi, in lingua gallese (una delle poche parlate celtiche rimaste), il vischio sia detto oll-iach, ovvero “panacea, ciò che guarisce tutto”.

Benché le bacche siano tossiche, e anche le foglie presentino una certa tossicità, tale per cui se ne sconsiglia l’uso domestico, il vischio è stato impiegato per secoli in tutta Europa e fino all’Estremo Oriente come una vera e propria panacea, in grado di curare, così vuole la tradizione, i mali più svariati: dai problemi cardiovascolari come ipertensione e aterosclerosi a quelli legati alle ossa e alle giunture come artriti e periartriti, dalla cefalea all’epilessia.

In merito all’epilessia, poi, la credenza che il vischio potesse guarirla si è mantenuta fino quasi ai giorni nostri in Svezia, Germania, Inghilterra così come in alcune province francesi. In Inghilterra e in Olanda, addirittura, questo impiego rimase in farmacopea fino al XVIII secolo, forse in virtù di un principio di magia simpatica: così come il vischio non tocca mai terra ma vegeta in alto sui tronchi degli alberi, nemmeno gli epilettici che ne portino un rametto in tasca o un decotto nello stomaco cadranno a toccare il suolo. Molto simile è anche il cosiddetto “ballo di San Vito” (o “di Saint-Guy” in Francia), una malattia psicosomatica che porta contrazioni muscolari involontarie, anche durante il riposo, e scoordinamento nei movimenti volontari e che guariva proprio per intervento del Santo, patrono degli epilettici (da notare come il suo nome richiami proprio l’antico nome del Vischio, vit, o gui in francese).

Σ.

FONTI

– Brosse J, Mitologia degli alberi. Dal giardino dell’Eden al legno della Croce. RCS Libri, Milano 1998.

– Matonti L, Un bacio sotto il vischio. «Piemonte Parchi» 2008 181:32-34.

– Zuber D, Widmer A, Phylogeography and host race differentiation in the European mistletoe (Viscum album L.). «Molecular Ecology» 2009 18:1946-1962.

– Gupta G et al, Sedative, antiepileptic and antipsychotic effects of Viscum album L. (Loranthaceae) in mice and rats. «Journal of Ethnopharmacology» 2012 141:810-816.

– Il brano di Plinio il Vecchio è tratto da Naturalis Historia 26:249-250; il passo di Virgilio è invece di Eneide 6:205-209 (traduzione mia).

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