Fiori fra le rocce

L’avevo cercata più volte, probabilmente nei posti sbagliati. E grande è stata la sorpresa nel trovarsela davanti quando meno me l’aspettavo. Il cielo era grigio su Punta Clotesse; una cortina di nuvole basse tagliava le cime dei monti circostanti. Lei era l’ultimo dei miei pensieri; pensavo solo a salire e a scendere prima che mi si rovesciasse addosso un temporale estivo lì, tra le rocce, senza un riparo, a quasi 2800 metri.

Il sentiero svoltava all’improvviso, poi impennava ed ecco, nel ghiaione, fra le rocce e i sassi, larghe foglie verdi.

“Non può essere lei” penso. Mi chino a osservare meglio. Berardia subacaulis, senza dubbio alcuno. È troppo unica per essere confusa con altro. Senza volerlo, me l’ero letteralmente trovata fra i piedi.

È una pianta strana la Berardia; trovarla è un dono, una macchina del tempo che proietta in ere lontane. Uno di quei regali che ti fanno amare il territorio in cui vivi. Come la satira per i Latini, la Berardia è tota nostra, vive solo sulle Alpi sudoccidentali. Amo gli endemismi. Arricchiscono i luoghi. Li vivificano, li rendono unici, speciali. Sono come una lettera d’amore rivolta a un paesaggio.

Già il suo nome, che ricorda Bérard, botanico di Grenoble del XVIII secolo e la sua “Flora illustrata del Delfinato”, la lega a queste montagne.

Le Alpi sudoccidentali sono, dopotutto, la zona alpina che presenta la maggiore biodiversità in termini di piante endemiche perché costituiscono una sorta di crocevia tra il Mediterraneo, con il suo influsso mitizzante, e i rigori del clima puramente alpino. E qui, come in una culla protetta, durante l’ultima glaciazione plestocenica, molte piante hanno trovato quel po’ di roccia e di terreno libero dai ghiacci in cui poter perdurare, in cui evitare l’estinzione.

Ma la storia della Berardia comincia ben prima dell’ultima glaciazione. È infatti tecnicamente definita un paleoendemismo, e quel prefisso paleo- la dice proveniente da un’era remota, distante da noi 66-23 milioni di anni: il Paleogene, appunto. A quell’epoca il panorama vegetale della regione mediterranea era dominato da un mosaico di piante tropicali, subtropicali e temperate, con le mangrovie che prosperavano lungo le coste. È in questo scenario, all’inizio dell’Oligocene, circa 33 milioni di anni fa, che fece la sua comparsa la Berardia. E fu testimone, 10 milioni di anni dopo la sua comparsa, di un mutamento epocale nella flora. Durante il Neogene (23-2,5 milioni di anni fa), il clima dell’Europa si raffreddò. Le temperature medie scesero di 10 gradi e la flora cambiò. Ma la Berardia ama il freddo, e sopravvisse colonizzando i ghiaioni, le scarpate e le fenditure fra le rocce delle montagne dell’Europa meridionale. E fu qui, in questi rifugi montani che Berardia sopravvisse anche all’ultima glaciazione, nel Pleistocene. Sopravvisse? Prosperò, addirittura! Più faceva freddo, meglio stava. Nell’ultimo periodo interglaciale, circa 120mila anni fa, il suo habitat era piuttosto ristretto, e si espanse, invece, a partire dall’ultimo massimo glaciale (21mila anni fa) fino ad adesso.

È un tesoro prezioso la Berardia, un relitto, un fossile vivente appartenente a un genere proprio, posizionato su un ramo filogenetico isolato delle Cardueae. Ed è una pianta perfettamente adattata al freddo. Tutto, in lei, si è evoluto per trarre il meglio da un ambiente inospitale come le cime dei monti. La si ritrova infatti solo in quota, tra i 1700 e i 2700 metri su substrati calcarei, in ghiaioni e pendii rocciosi. Erbacea perenne, è acaule, come dice il suo nome, vale a dire che i fiori crescono a diretto contatto con la rosetta di foglie e non sono sorretti da uno stelo, adattamento che le consente di far fronte ai venti freddi di montagna e che spesso si riscontra anche in altre specie che, in pianura, sono invece provviste di stelo. La fitta lanugine (tricomi) che ricopre le foglie la isola dal freddo e la spessa radice legnosa la ancora al terreno e ne garantisce la sopravvivenza. In alta montagna anche gli insetti sono pochi, e le visite degli impollinatori sui fiori sono rare. Ma la Berardia ha saputo imparare a dischiudere i fiorellini che compongono il capolino dapprima in fase maschile (protrandria), in maniera tale da attirare un maggior numero (seppur limitato) di insetti pronubi. Né ha particolari preferenze in termini di impollinazione: ben 13 specie diverse sono state classificate sui suoi fiori. Alate e non. Omotteri, ditteri, coleotteri e lepidotteri: va bene tutto pur di riprodursi. E se le giornate sono troppo fredde e ventose e gli insetti non si fanno vedere, poco male: la Berardia ha imparato a fare da sé, e può riprodursi anche per via autogama, autoimpollinandosi. Certo, ne va della variabilità genetica, ma la sopravvivenza è assicurata. È ciò che accade, in montagna, alle specie dai fiori poco appariscenti. Le piante che, in quota, fanno invece bella mostra dei loro fiori hanno optato per una strategia diversa, cercando, con i loro colori, di attirare gli insetti a tutti i costi.

Cresce in popolazioni di dimensione variabile, da meno di una decina di individui fino a qualche migliaio e, se è pur vero che è al massimo della sua espansione areale, il riscaldamento globale, negli ultimi anni ben percepibile, può metterla in serio pericolo. Ama il freddo, ma, se le montagne si scaldano, non ha più dove fuggire, dato che già ne ha colonizzato le cime. Più in alto c’è solo il cielo. Si stima che entro il 2050 la Berardia sarà a rischio (ovvero avrà perso più del 50% del suo areale) e vent’anni dopo sarà seriamente minacciata, con una perdita di habitat di più dell’80%! Andiamo avanti così e rischiamo di perderla. E con lei, molte altre piante che vivono sui nostri monti: il 48,5% delle specie vegetali alpine è a rischio. Una perdita di biodiversità non indifferente.

E, se è vero che l’innalzamento delle temperature è dovuto principalmente alle attività antropiche, avremo l’ardire di vantarci di aver causato l’estinzione, fra le altre, di una pianta che era riuscita a sopravvivere, aggrappata alle rocce, per 33 milioni di anni?

Σ.

FONTI

Guerrina M et al (2016) Knowing the past to forecast the future: a case study on a relictual, endemic species of the SW Alps, Berardia subacaulis. «Reg Environ Change» 16:1035-1045.

 

Guerrina M et al (2016) Reproductive biology of an Alpic paleo‑endemic in a changing climate. «J Plant Res» 129:477-485.

 

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