I LARICI DI VALLE STRETTA

valle strettaC’è chi ipotizza che dietro il nome di Melezet (< mélèze, ‘larice’) si celi la traccia di un antico bosco sacro ormai scomparso sulla carta, ma conservato nella toponomastica[1]. Ma nulla rimane, al giorno d’oggi, di sacro nei lariceti di Melezet, sventrati dalle piste da sci e dagli impianti di risalita, contornati da strade asfaltate e case e alberghi che, dalla sempre più turistica Bardonecchia, salgono, come conquistatori, a colonizzare la montagna.

Ma un’aria diversa si respira poco più a monte, saliti i tornanti che portano in Valle Stretta. Se i Celti davvero adoravano i boschi in quest’angolo di Valle, doveva essere qui. Qui dove i larici e i pini si mischiano in una fitta boscaglia attraversata dal continuo gorgogliare di un ruscello; qui dove i boschi sono cintati naturalmente da grandi muraglie di scabra roccia.

Qui, in questo spazio angusto, dove lo sguardo corre solo alle montagne, e degrada, nelle giornate più terse, fino al monte Tabor, la cui vetta, in antico, era luogo di culto di divinità dimenticate.

Qui, dove i boschi sembrano quasi una navata arborea, un corridoio silvestre che porta all’altare della montagna.

Qui, dove il sole regala brevi ore di luce per poi nascondersi dietro le creste, gettando la valle in un freddo crepuscolo.

Qui, dove la neve avvolge le cose con un candido abbraccio, celando le rocce affilate e tessendo mantelli scintillanti per i rami degli alberi.

Qui, dove ancora il cielo notturno è gravato del peso di miliardi di stelle luminose.

Qui i larici conservano ancora qualcosa di sacro quando protendono i loro rami spogli nel cielo, come dita scheletriche che supplicano l’arrivo della primavera.

Σ.

[1] Natalino Bartolomasi, Valsusa antica. Volume I, Editrice Alzani s.a.s., Pinerolo  1975, p. 51.