Il cervo divino

cervoAvevo quattordici anni la prima volta che lo sentii. Non ricordo dove fossimo. Di sicuro da qualche parte sulle montagne della Valsusa; di sicuro sul sentiero sbagliato. Quattro ragazzini con lo zaino sulle spalle, e la notte ormai avanzava rapida nel cielo autunnale. Piantammo la tenda in una radura: da un lato si stagliava, scuro nella sera, il profilo del bosco; dall’altro, il prato terminava con uno sperone roccioso sull’abisso, come un altare a un qualche dio invisibile. Una betulla solitaria osservava le montagne tingersi dei colori del tramonto.

Non era ancora mezzanotte. Dormivamo, cullati dalla quiete dei monti, finché non ci riscosse un bramito. Cupo. Potente. Roco. Appena dietro il velo della tenda. Un mugghio profondo che vibrava nell’aria attorno a noi.

Un cane latrò in lontananza.

Il respiro del cervo a pochi centimetri dalle nostre teste. I nostri occhi sbarrati nel buio. Nessuno osò fiatare, né aprire la tenda.

Poi l’animale bramì di nuovo, e, questa volta, altri cervi gli risposero, lontano, e il loro coro rimbalzò nelle convalli, s’infranse contro le rocce spaccandosi nei mille frammenti dell’eco.

La stagione dei bramiti. Dal germanico antico *brammōn, ‘muggire’, da cui, col significato intermedio di ‘chiedere con forza’, deriva anche brama.[1]

E “campi della brama” son detti i declivi e i prati dove i cervi maschi, nella stagione degli amori, radunano il proprio harem di femmine, sancendo con quel loro cupo richiamo il proprio diritto ad accoppiarsi.

L’inverno lo passano in gruppo, e i grandi palchi dei maschi contrastano sul candore della neve. Li perderanno a partire dalla fine di febbraio, prima i più anziani, i giovani poi. Li perderanno e li lasceranno lì, sparsi nel bosco, testimoni muti del loro passaggio. E nuovi trofei vellutati cominceranno a crescere sul loro capo, fino all’estate, quando il velluto, ormai diventato inutile, verrà fregato via contro i tronchi degli alberi.[2]

Ci fu un tempo in cui gli uomini condividevano coi cervi i boschi e i prati, quando i cervi combattevano fra loro e i cacciatori danzavano attorno al fuoco rivestiti dei loro palchi ramificati. Un tempo ormai quasi fuori dal tempo, che si perde nella notte ancestrale in cui per la prima volta l’uomo e la bestia si guardarono negli occhi. Tracce di culti preceltici affiorano ancora, per chi sa osservare, nel folklore delle Highlands scozzesi e dell’Irlanda – ultimi resti di credenze che, verisimilmente, coprivano tutta l’Europa. Sono tracce di una società matriarcale, leggende di fate che pascolano mandrie di cervi e che in essi si mutano all’occorrenza. Tracce di dèe gigantesche, ipostasi divine dello spirito del cervo, e delle loro sacerdotesse. Misteri preclusi agli uomini di una società dove le donne detenevano il monopolio del soprannaturale.

Poi vennero i Celti. Giunsero galoppando col vento dell’est, e si stabilirono nell’Europa centrale, nelle isole britanniche, nell’Italia del nord. E portarono con sé una società diversa, patriarcale. I loro cavalieri e i loro eroi uccisero le sacerdotesse dei culti antichi, divenute streghe agli occhi degli invasori, ma lo spirito del cervo non venne meno.

Semplicemente mutò forma. Si riplasmò nella figura del dio Cernunnos, il dio con le corna, dalla radice cern che ha prodotto ugualmente il gaelico corn, il latino cornu e l’inglese horn.[3]

Sta seduto sull’erba della foresta con le gambe incrociate, il dio Cernunnos, attorniato dagli animali e da un serpente con corna d’ariete, simbolo ctonio che lo lega al mondo infero. Il suo viso è giovanile e sbarbato, e lunghi palchi gli crescono sulla testa. Una torque di metallo prezioso gli inanella il collo.

È un dio della fertilità della natura, colui che crea e nutre l’umanità, le piante, gli animali.[4] È un dio creatore e distruttore, incarnazione della ciclicità della natura che si esplica nei palchi del cervo, che tutti gli anni crescono e sono restituiti al suolo.[5] Ma, come dio della fertilità ciclica del bosco, è anche un dio dell’aldilà. Sta seduto sul terreno. Su quello stesso terreno da cui spuntano gli alberi e in cui giacciono e si disfano i corpi morti per diventare nuova vita.

Ma quello celtico è un aldilà fertile e luminoso, lontano dalle pallentis umbras Erebi noctemque profundam[6] del mondo greco-latino.

Ed è sotto la dominazione romana, non a caso, che Cernunnos comincia a spegnersi. Invecchia, dapprima. L’iconografia lo dipinge ora come un vecchio pelato con la barba lunga, secondo i canoni degli dèi inferi. Poi scompare. Muore, assorbito da nuovi dèi che si spartiscono il suo regno boschivo. E così le foreste cambiano padrone. Un nuovo dio, dal nome tipicamente latino, prende il suo posto. Ma è un dio che porta in mano la roncola e si fa accompagnare dai cani; è il riflesso dell’antropizzazione che Roma porta con sé anche nei boschi. Silvano, questo dio straniero, non ha più nulla della forza primigenia, dell’energia vitale del suo predecessore. Solo dove la cultura greca è più forte di quella latina Cernunnos cede il posto a un altro dio con le corna: a Pan, che però nulla ha della maestà del cervo.[7]

Solo i palchi rimangono.

O forse no. Forse qualcosa gli sopravvive. Lo spirito di Cernunnos si frantuma in mille piccoli pezzi che si nascondono nei boschi e danzano al chiaro di luna con le corna dei cervi appese alla cintura. Sono i korrigan, l’ultimo sospiro del cervo divino.[8]

Ma se nella Bretagna del XIX secolo ancora c’era chi giurava di averli visti, ora i boschi sono deserti, perché non vive più nessuno che li ricordi.

Soltanto restano i palchi, abbandonati nel bosco a primavera – rosicchiati dagli scoiattoli.

Σ.

 

[1] DELI 1999, s.v.

[2] Laura Canalis, I mammiferi delle Alpi. Come riconoscerli, dove e quando osservarli, Blu Edizioni, Torino 2012, pp. 230-235.

[3] J. G. McKay, The Deer-Cult and the Deer-Goddess Cult of the Ancient Caledonians, «Folklore» 1932, 43, 2, 144-174.

[4] Phyllis Fray Bober, Cernunnos: Origin and Transformation of a Celtic Divinity, «American Journal of Archaelogy» 1951, 55,1, 13-51, pp.14-28.

[5] Adolfo Zavaroni, Les dieux du cycle de la régénération dans quelques figures celtiques, «Revue de l’histoire des religions» 2004, 221, 2, 157-173, p 166.

[6] Virgilio, Eneide 4.26.

[7] Bober, op. cit., pp. 30-40.

[8] Jacques Brosse, Mythologies des arbres, Edition Plon, Paris 1989 (trad. it. Mitologia degli alberi. Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Bur saggi, Milano 2015, da cui si cita), p. 198.

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