IL SALTO DELLA BELL’ALDA

C’è un torrione sbrecciato che si erge, ancora in piedi in mezzo alle rovine, proprio di fronte al complesso della Sacra di San Michele. E non importa se la torre sia del XII secolo, del XIII o anteriore; non importa se la storia sia avvenuta al tempo dei Saraceni, del Barbarossa, nel ‘600 o l’altro ieri. Non importa, perché ormai si è intrisa della polvere del mito, di quella patina sottile che ricopre le storie e le trasla fuori dal tempo, nell’indefinito di una narrazione all’imperfetto, nell’universalità di una trama sempre ripetibile, nell’incisività di un paradigma vecchio come il mondo e sempre nuovo.

Era bella, Alda, almeno quanto è brutta la guerra, quella guerra feroce che impazzava per le strade della valle, lungo i vicoli, nelle case, sull’erba dei giardini. Bande di soldati saccheggiavano i paesi; le loro risate risuonavano nel vortice del fuoco insieme alle grida degli uccisi.

Fuggire. Ma dove? La Sacra ha mura possenti, e i soldati non oseranno profanare il santuario.

Non c’è tempo per mettersi le scarpe; non c’è tempo per prendere il giubbotto. Corri! Corri scalza sulle pietre fredde della mulattiera; corri nel gelo della notte; corri finché non arrivi al portone pesante dei monaci là, sulla montagna. Chiedi loro asilo, per te, e per tutta questa gente che ti circonda. Nei loro occhi c’è il terrore della guerra; nelle loro ossa, freddo e paura.

I monaci aprono le porte ospitali, donano pane e un sorso di vino. I volti tesi e spaventati si rilassano un poco.

Ma presto s’ode dal bosco un rumore di passi chiodati. Stridono, come gli artigli del diavolo, sulla pietra levigata, e il bagliore delle torce s’insinua tra i rami degli alberi. Le mura non reggono l’urto dei soldati. I cardini saltano. La gente grida e travolge i vicini in un’ultima fuga disperata.

Il sangue dei monaci si mischia al vino sul selciato del santuario come in una sacrilega eucarestia. Gli uomini cadono sotto le armi; i bambini sono calpestati; le donne stuprate. Nell’orrore della strage, solo Alda rimane. E corre. Corre. Corre scalza sui gradini di pietra, una rampa dopo l’altra, una porta dopo l’altra, in una fuga cieca fino in cima al torrione.

Serra a chiave la porta.

La luce della luna entra dalla finestra con un raggio candido e dolce. Alda l’osserva, e prega Maria.

E quando la serratura, infine, cede, e i soldati sporcano il candore della luna, si getta dalla finestra con in bocca il nome della Vergine.

Gli assassini la guardano volare, precipitare scomposta giù dalla torre. Ma poco prima che tocchi il suolo, ecco un bagliore di luce provenire dal cielo, e due angeli la prendono al volo e la depositano, leggera, al sicuro, lontano dai soldati, lontano dalla guerra.

I giorni passano, la vita ritorna alla normalità, ma nessuno crede alla storia di Alda.

La senti, quella stupida ragazzina che tira in ballo gli angeli? Si nasconde nei boschi e poi si vanta di essere stata salvata da Dio!

È disperata, la bell’Alda, e non sa più cosa dire perché le credano. E un giorno, eccola sulla piazza davanti alla chiesa, di nuovo bersaglio di motti e sberleffi.

“Ve lo proverò!” grida, stremata. E corre come una menade su per la mulattiera, su per gli scalini del torrione, su, fino al cornicione della finestra sotto la quale gli angeli l’avevano presa al volo. Tutto il paese l’ha seguita e la osserva. Alda s’inginocchia, e prega Maria, poi si lancia nel vuoto.

Ma questa volta non ci sono angeli a prenderla in braccio; la Vergine la osserva dal cielo intristita. Si schianta sulle rocce, Alda la bella, e i ragazzini, insensibili al dolore, già tornano a casa cantando:

“La bell’Alda inorgoglita

qui dal balzo si gettò

sfracellata nella valle

la bell’Alda se ne andò.”[1]

 

Σ.

[1] Michele Ruggiero, Tradizioni e leggende della Valle di Susa, Editrice Piemonte in Bancarella, Torino 1970, p.77.