E la sorella di Febo, Artemis, figlia di Zeus,
onora, considerandola la più grande tra gli dèi;
e per la verde foresta, vivendo sempre con la vergine,
con le cagne veloci abbatte le fiere della terra.[1]
Quando Artemis è diventata sorella di Febo-Apollo, ha perso qualcosa. Divenendo la dea della luna, sorella del Sole, ha lasciato dietro di sé un’impronta nel cielo, riflessa nel suo nome. Era una dea diversa l’Artemis originaria. Una dea soffusa, brillante di una luce pallida e diffusa, una dea delle stelle. Delle stelle dell’Orsa. He àrktos era già per Omero l’Orsa maggiore, e da lì, dall’Orsa, da àrktos, Artemis prende il nome. Hai àrktoi, le orsette, eran chiamate le bambine che officiavano il culto della dea durante le feste in suo onore, le arktèia. Signora delle fiere, che si aggirano per i boschi alla luce delle stelle, l’Artemis originale pare configurarsi, più che altro, come signora degli orsi, la cui immagine catasterizzata rifulge nel cielo come segno visibile della divinità.
Non dissimile doveva essere la Diana celtica, la cui testa fu raffigurata sulle monete dei Segovi, una delle tribù che abitavano la Valle di Susa a cavallo tra il I secolo a.C. e il I d.C. Le analogie linguistiche (‘orso’ è detto in greco àrktos e in celtico art) fanno pensare a una radice comune, a un antico culto indoeuropeo declinatosi in forme diverse eppure assai simili presso i Greci e i Celti. Il nome della signora degli orsi celtica è Artio e, se la linguistica non ci trae in inganno, era venerata sulla cima che oggi è detta Monte Orsiera.
Là, sugli scabri denti della montagna che ora ospitano le croci di ferro del culto cristiano, un tempo ben altri riti dovevano essere officiati. Là, (come a Celle, dove se ne trovarono i resti), l’orso veniva sacrificato alla dea delle fiere, e la potenza dell’animale diventava preghiera per una caccia fortunata.[2]
Σ.
[1] Euripide, Ippolito 15-18.
[2] Natalino Bartolomasi, Valsusa antica. Volume I, Editrice Alzani s.a.s., Pinerolo 1975, pp. 35; 289-290.