LA FALESIA E IL FICO

falesia ficoIsola Felice, la chiamano, forse per la posizione soleggiata e riparata dal vento, la piccola parete di calcare lungo la mulattiera che affianca l’Orrido di Foresto. O Falesia del Fico, e il fico osserva dall’alto, piantato saldamente nella roccia, gli uomini che scalano ai suoi piedi e non badano a lui.

Ma se l’attenzione degli scalatori di oggi è concentrata sulle asperità della roccia, di ben altra considerazione godeva la pianta in antico. Fu una delle prime piante da frutto ad essere domesticata, e ha lasciato traccia di sé nella Genesi, unico albero ad essere nominato, assieme all’albero della vita e a quello della conoscenza del bene e del male, nel Paradiso Terrestre, e nelle tombe dell’antico Egitto, i cui dipinti raffigurano il giardino dell’aldilà, lontano, a occidente[1].

Se in Grecia i fichi costituivano una parte importante dell’alimentazione ed erano tutelati al punto che chiunque – i cosiddetti sicofanti – poteva denunciarne il furto (o forse denunciare chi ne svelava i misteri religiosi?), i Romani elevarono addirittura la pianta a simbolo stesso della città[2]. Roma fu fondata da Romolo, che era figlio di Marte, dio della guerra: è cosa scontata. Sì e no. Perché il Marte originario non presiedeva alle azioni belliche, ma vestì l’armatura e impugnò la lancia solo quando i contadini che lo veneravano cominciarono a doversi difendere dalle popolazioni circostanti. Marte, nella Roma arcaica, è più importante di Giove. È il dio della primavera, nato da Giunone e da un fiore, e presiede, nel mese di marzo a lui dedicato, alla montata della linfa, alla rinascita degli alberi, in particolare del fico.

Mars Gradivus, Marte che fa spuntare la vegetazione.

Questo era il Marte originale. E a lui erano sacre le piante di fico che punteggiavano la città. Una davanti al tempio di Saturno; una – apotropaica – nel Comizio, dove, con rito già etrusco, erano stati sotterrati i fulmini;  una in mezzo al Foro, nata per caso dalla voragine in cui, nel 362 a.C. Marco Curzio si gettò, immolandosi per salvare la Città dalla rovina[3]. E una, la più sacra, davanti alla grotta del Lupercale. Lì, tra le radici di quella pianta, si era fermata la cesta abbandonata sulle acque del Tevere che conteneva Romolo e Remo infanti. E lì, all’ombra delle foglie del fico Ruminale (da rumis, ‘mammella’), la lupa aveva allattato i gemelli e il picchio li aveva svezzati. E sia il lupo sia il picchio sono sacri a Marte[4].

Ma se il latice bianco del fico Ruminale richiamava alla memoria degli antichi il latte della lupa, anche altri liquidi corporei, data la forma orchidica dei siconi della pianta, si facevano largo nel loro immaginario. E così, per i Greci, il fico era uno degli alberi di Dioniso, il dio della linfa e dei succhi (chiamato, appunto, in Laconia, Sykítes, da sýkon, il  ‘fico’), e di suo figlio Priapo, il dio del fallo – e nel legno di fico erano scolpiti i falli che i Greci portavano in processione.

Ma prima ancora che gli uomini cominciassero ad accostare la pianta a questa o quella divinità, il fico sacro aveva trovato, nella sua lunga storia evolutiva un paredro non meno importante, benché talmente piccolo da viaggiare inosservato. Si tratta di Blastophaga psenes, una minuscola vespa della famiglia delle Agaonidae, simbionte di Ficus carica. Il fico selvatico è una pianta dioica, o meglio, ginodioica. Alcune piante, cioè, presentano siconi con fiori femminili brevistili e fiori maschili; altre siconi che portano solo fiori femminili longistili. Essendo i fiori chiusi all’interno del siconio (che poi è quello che banalmente chiamiamo frutto, anche se frutto non è), possono essere impollinati soltanto dalle vespe, che riescono a penetrarvi attraverso un piccolo forellino protetto da brattee e detto ostiolo. Le femmine di Blastophaga, cariche di polline proveniente da un siconio più vecchio, penetrano in un siconio durante l’antesi dei fiori femminili e vi trovano l’ambiente ideale per deporre le uova. Perché la larva si sviluppi, però, devono raggiungere, con il loro ovipositore, l’ovario di tali fiori, e solo quelli brevistili sono alla loro portata. Durante la deposizione, la vespa si contorce, e sparge attorno a sé il polline che reca addosso, fecondando i fiori femminili. Se entra in un siconio con fiori longistili, non riesce a deporre, ma il polline che reca feconda i fiori e dà l’avvio alla maturazione del fico; se invece è penetrata in un siconio con fiori brevistili, il suo ovipositore le permetterà di raggiungerne gli ovari, che diventeranno delle galle, in cui crescerà la nuova generazione di vespe. E i nuovi nati emergeranno proprio quando i fiori maschili del siconio produrranno polline. Si accoppieranno e, cariche di polline, le femmine abbandoneranno il siconio per cercarne un altro in cui ripetere il ciclo eterno cui presiede il Marte Gradivus[5].

Σ.

[1] Frances Carey, The Tree. Meaning and Myth, The British Museum Press, London 2012, p. 100.

Cf. Gen. 3.7.

[2] Jacques Brosse, Mythologies des arbres, Edition Plon, Paris 1989 (trad. it. Mitologia degli alberi. Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Bur saggi, Milano 2015, da cui si cita), pp. 235-243.

[3] Tito Livio, Ab Urbe Condita 7.6.5.

[4] Plutarco, Romolo 4.

[5] F. Kjellberg, P.-H. Gouyon, M. Ibrahim, M. Raymond and G. Valdeyron, The Stability of the Symbiosis between Dioecious Figs and Their Pollinators: A Study of Ficus carica L. and Blastophaga psenes L., «Evolution» 41, 4, 1987, pp. 693-704.