LA ROCCIA ED IL SANGUE

coppelle susaAlle volte mi capita di osservare i turisti distratti che passano per Susa, la macchina foto al collo e la testa per aria, ad ammirare le montagne innevate di fresco, e l’arco d’Augusto. Una foto sotto l’arco è di rito; una sbirciata all’interno del cortile del castello, e via, si scende. Le arcate dell’acquedotto romano paiono una quinta naturale e scontata, e non le si degna di grande attenzione.

Ma è lì, dove l’acquedotto si appoggia alla roccia, che si nasconde il cuore di Susa, la sua acropoli, il suo primo altare. Scavata nella pietra durante la tarda età del bronzo, una ragnatela di coppelle rozzamente levigate – il complesso più esteso del Piemonte – intarsia la roccia[1].

Lì, sul punto più alto della città, dove gli occhi si fissano sul candore nivale del Rocciamelone, quante generazioni di sacerdoti hanno officiato i propri riti, macchiando la roccia di sangue? Ed il vento, quel vento onnipresente che sembra il respiro stesso della Valle, riempiva i polmoni dell’odore del ferro e increspava le pozze di sangue nelle coppelle. Gli indovini, frattanto, ne osservavano il lento scorrere da una coppella all’altra, e, mentre rivoli rossi riempivano i canali di pietra, ne traevano auspici.

Essi [scil. i Druidi] predicono il futuro osservando il volo degli uccelli e sacrificando vittime, e tutto il popolo sta ad ascoltarli. E, quando cercano la predizione di fatti importanti, hanno un’usanza straordinaria e incredibile: dopo aver fatto libagioni, con una spada uccidono un uomo colpendolo al di sopra del diaframma, e, una volta che quello è caduto, percepiscono il futuro in base alla caduta e agli spasmi delle membra, e persino grazie a come scorre il sangue. E si fidano ciecamente di questa pratica, avendola ereditata da tempi immemorabili[2].

Et quibus inmitis placatur sanguine diro

Teutates, horrensque feris altaribus Esus,

et Taranis Scyticae non mitior ara Dianae[3].

Con orrendi sacrifici di sangue placano Teutatis crudele e il tremendo Esus su altari spaventosi, e Taranis, il cui culto non è più mite di quello della Diana scitica.

Ora quegli altari li riempie la pioggia.

Σ.

 

[1] Natalino Bartolomasi, Valsusa antica. Volume I, Editrice Alzani s.a.s., Pinerolo  1975, pp. 52 ss.

[2] Diodoro, Bibliotheca historica 5.31.3.

[3] Lucano, Bellum civile 1.444-446.