LO SPIRITO DEL THABOR

thabor“Non c’è più speranza, siamo perduti! Oh Nostra Donna di Monte Tabor, venite, venite presto in nostro aiuto!”.[1] Così pregava la donna, inginocchiata per strada nella neve, lo sguardo febbrile rivolto al monte che, nella notte illuminata dalle fiamme, rimaneva celato. E così pregava il vecchio sacerdote, immobile come la statua d’un qualche profeta arrossata dal fuoco. Era il 12 gennaio 1890, e Melezet bruciava. Il vento, incalzante, fomentava le fiamme, spingendole su, verso il fieno accumulato nei sottotetti, verso le travi d’abete intrise di resina.

Non c’è più speranza; Maria, siamo nelle tue mani. Fu a quelle parole che il vento, all’improvviso, cambiò direzione, spingendo le fiamme lontano dalle case. Il fuoco fu domato; la fede nella Vergine rinsaldata con quel quid di quasi miracoloso che sollevò gli animi affranti.

Ma non era la prima volta che l’Addolorata salvava i suoi fedeli dall’alto della sua montagna.

Risale a 30 anni prima, infatti (giusto per citare l’esempio più eclatante) l”istituzione della processione annuale del 16 luglio fino alla cappella sul Thabor per ringraziare la Vergine della protezione concessa. Imperversava, allora, un’epidemia di tifo, cessata all’improvviso dopo che la comunità ebbe fatto voto a Maria.[2]

La Madre di Dio abitava sul nevaio, e da lì, col suo sguardo amorevole, vegliava sui fedeli giù nella valle. E tale era il fervore con cui essi veneravano lo Spirito sulla montagna, da spingere il Vallory, allora parroco, a descrivere la processione che si snodò dal paese alla vetta ghiacciata in occasione della ricostruzione della cappella nel 1897 con toni che spaziano dall’epica all’elegia.

 

             Era una giornata che aveva dell’autunno inoltrato; il cielo nuvoloso e piovigginoso era pronostico della tormenta, che avrebbe imperversato sul monte. Difatto anche i più anziani non ricordavano di aver veduto un peggiore tempaccio. Dapprima il vento, mutando sovente e all’improvviso direzione, e rovesciando ogni riparo, spingeva la pioggia fitta e sottile sì da inzuppare intieramente i panni ai pellegrini, poi facendosi freddo e poi gelato, il vento riusciva ad assiderare ogni cosa, coprendola di brina. Era però un curioso spettacolo il vedere attraverso il fosco della bufera muoversi lentamente una lunga striscia serpeggiante, composta di esseri che avresti detto fantastici più che umani; dalle vesti bianche con rigide le pieghe, quasi quelle di una rozza statua. Certi ciondoli di ghiaccio a cono, appesi ai baffi spioventi degli uomini e persino alle trene delle donne, compivano la strana uniforme dei pellegrini. Non si udiva tuttavia un lamento. Il silenzio era rotto solamente dal ripigliare che facevano i cantori tratto tratto l’invocazione di un Santo, o l’Ave maris stella.[3]

 

Abbiamo perso di vista il sacro. Abbiamo perso di vista il sentimento che ha spinto gli uomini, in migliaia di anni, a venerare qualcosa su quella montagna lontana coperta di neve perenne. Lo Spirito sta morendo. Scivola nei rigagnoli nivali assieme al ghiacciaio che fonde.

Ma fino al secolo scorso era forte, sorretto da una tradizione che si perde nei meandri della storia, ben prima di Maria e del Cristianesimo.  Un acervo di pietre sorgeva su quella vetta sacra, dedicato a qualche dio ormai obliato[4]. Né è un volo troppo lungo il pensarlo votato a Beleno, il disco solare, da cui i Belaci che abitavano la conca di Bardonecchia traevano il proprio nome. Il sole che scalda l’estate in una terra di ghiacci.

Poi venne Cristo. Il suo Spirito aleggiò sulla valle cambiando i nomi e i culti. E la montagna divenne Thabor, sulla scia del monte della Trasfigurazione (forse storpiando il precedente toponimo), e i massicci che guidano alla sua presenza diventarono i Re Magi. E il sole che muore in occaso dietro la montagna fu rimpiazzato da Maria che piange la morte del Figlio in croce.

Nuove ere; nuovi culti; uno stesso sentimento del sacro.

Il santuario celtico fu probabilmente smantellato all’epoca della ricostruzione della cappella ad opera del Vallory. Ma quando fu eretta la prima cappella a Maria? A causa di un incendio che devastò il paesello di Melezet e gli archivi parrocchiali, le fonti più antiche risalgono soltanto al 1694.[5] Si tratta di un autografo francese scritto dall’allora parroco Girolamo Andrè in cui l’uomo di chiesa mette nero su bianco la volontà di ricostruire la cappella, esistente ab immemorabili, ormai completamente distrutta dall’incuria e dal gelo.

Per sapere qualcosa della prima cappella, di quel piccolo avamposto alpino di una fede nuova e diversa, non resta che ascoltare le tradizioni popolari.[6]

Raccontano i vecchi che fu edificata in una sola notte d’agosto, quando una nevicata improvvisa ne tracciò la pianta sulla scabra vetta, e che la manodopera la misero gli angeli.

Σ.

[1] P. M. Vallory, Il monte Tabor (Melezet presso Bardonecchia). Memorie della cappella e piccola guida pei forestieri, Tipografia salesiana, Torino 1908, p. 41.

[2] Ibid., p. 33.

[3] Ibid., pp. 28-29.

[4] Natalino Bartolomasi, Valsusa antica. Volume I, Editrice Alzani s.a.s., Pinerolo  1975, pp. 36 e 43.

[5] Vallory, op. cit., p. 12.

[6] Michele Ruggiero, Tradizioni e leggende della Valle di Susa, Editrice Piemonte in Bancarella, Torino 1970, p. 92.