NOVALESA: S. PIETRO E LE MATRONE

novalesaVuole una leggenda che, durante le persecuzioni di Nerone contro i cristiani, Priscilla, nipote dell’imperatore, presi con sé alcuni seguaci del Cristo tra cui Elia e Mileto, arrivati a Roma con S. Pietro, sia fuggita alla volta delle Alpi Cozie.[1] Giunti a Susa, essi trovarono la protezione del governatore Burro, segretamente cristiano.

Ma Susa era un crocevia trafficato, e presto i fuggiaschi decisero di rimettersi in cammino, trovando poco lontano, nell’isolamento e nella tranquillità della Val Cenischia, il luogo ideale dove fermarsi a pregare e accendere la Nova Lux del Vangelo da cui alcuni vogliono che l’abitato di Novalesa abbia preso il nome.

E non passò molto tempo prima che anche Pietro passasse di lì, sulla via per evangelizzare le Gallie, ed ebbe modo di consacrare il piccolo oratorio che i profughi avevano eretto. Quel piccolo oratorio che altro non sarebbe che il nucleo primigenio della futura abbazia, sorta poi in VIII secolo, con successivi restauri e rifacimenti fino al ‘700 e proprio a San Pietro (e Andrea) dedicata.

E Novalesa divenne davvero, nel Medioevo, un faro che irraggiava la luce cristiana nelle Alpi. Un faro che però, prima, brillava di una luce, di una fede, diversa.

È curioso come certi posti evochino di per sé stessi l’idea del sacro; come i culti si modifichino e si riplasmino nel tempo; ma come, sempre, permanga quel sentimento di meraviglia che porta l’uomo a innalzare gli occhi al cielo. A quel cielo stellato che qui fa quasi da quinta ai ripidi pendii dei monti, scavati dal continuo scrosciare di mille cascate.

Ed era lì, probabilmente, nelle cascate, che abitavano le Matrone, le Madri, le dèe celtiche dell’acqua che feconda la terra.

È un’altra leggenda di Novalesa a lasciare trapelare l’arcano.[2]

Narra il Chronicon Novaliciense (5.47) che un monaco del luogo, un giorno, incontrò tres virgines sacras dall’aspetto ammaliante e luminoso.

O monache, quo vadis?” gli domandarono quelle.

Ab ecclesia sanctę Dei genitricis regredior” rispose.

“E fai bene ad onorare i suoi sacri altari, ché lei tutti i giorni prega per i peccati di tutti i popoli” fu la risposta delle vergini, e subito l’incanto svanì.

Sono l’appellativo di Maria come Madre di Dio e il riferimento alle tre sante vergini gli indizi che illuminano la strada dei culti antichi. Se da un lato, infatti, l’epiteto di madre si è traslato al culto della Madonna, dall’altro, le Matrone, generalmente raffigurate in numero di tre, sono diventate tre sante vergini, come spesso è accaduto nei culti della Germania meridionale.

Sono le Matrone a farsi incontro al monaco, rivestite della nuova veste cristiana.

Sono le Madri.

– Vi sono auguste dive il cui regno è la solitudine; intorno ad esse non v’è né spazio né tempo, e non si può parlare di esse senza sentirsi turbati. Sono le Madri.

– Le Madri!

– Tu tremi!

– Le Madri! le Madri! Che strano suono ha codesta parola!

– E pure esistono, codeste dee, ignote a voi mortali, e che noi nominiamo peritosi. Tu andrai in cerca della loro dimora per entro i profondi abissi. […]

– Qual è la strada?

– Non ne esiste di tracciata; bisogna avventurarsi verso l’inaccessibile e l’impenetrabile per sentieri non ancora percorsi e che non lo saranno mai. Sei pronto? Non vi sono né serrature né catenacci da scassinare. Hai tu qualche idea del vuoto, della solitudine?[3]

Σ.

 

[1] Natalino Bartolomasi, Valsusa antica. Volume II, Editrice Alzani s.a.s., Pinerolo  1985, pp. 38-39.

[2] Bartolomasi, op. cit., p. 507.

[3] Goethe, Faust parte II atto I, trad. it. di Giuseppe Gazzino 1857.