Patmos. Alla fine della strada

“Io, Giovanni, vostro fratello e compagno della tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese”.[1]

Come non iniziare, parlando di Patmos, dall’Apocalisse? È terra di romitaggi e di visioni, di eremiti e monasteri, del Monastero, anzi, che si erge sopra la bianca Chora come luce ortodossa, come faro sull’Egeo in tempesta.

Ma lascio il turismo religioso a chi ne sia più interessato. Negli angusti spazi del monastero, tra gli ori della sacre icone e le incensiere, qualcos’altro attira la mia attenzione: un pezzo rettangolare di marmo bianco, del II secolo d.C. dicono le guide, ma che racconta una storia molto più antica.

“O preziosa Fortuna, Questa nubile, vergine, figlia di Glauco è Vira di Patmos, la portatrice dell’acqua. È colei che ha liberato Oreste. Egli vagava di terra in terra braccato dalle Furie feroci, da quando spinse il ferro nel cuore della madre. Dal paese degli Sciti giunse a Patmos con la statua lignea della dea a loro presa. E tu, Vira, figlia di Glauco, calmasti la sua furiosa follia. Ripreso il senno, la lignea statua dedicò questi ad Artemide Skythia dell’Egeo”.[2]

Una variante del mito di Oreste quanto meno degna di nota.

Oreste e Giovanni. Entrambi nella tribolazione: l’uno perseguitato in nome della fede, l’altro braccato dai sensi di colpa, dalle Erinni della madre uccisa per vendicare l’assassinio del padre. Entrambi trovano a Patmos una sorta di (ri)conciliazione.

Patmos che diventa terra di errabondi, di raminghi.

E anche io ho ramingato. Ho calcato a piedi, da solo con i miei pensieri, le sue strade, i suoi vicoli, i suoi sentieri. Da Psili Ammos, a sud, fino alla fine della strada, a Capo Geranos, nel nordest, dove il sentiero si butta nelle fredde acque dell’Egeo.

Il viaggio parte da Kos, con un sole che incendia l’acqua in un tramonto di fuoco. Si attracca a Skala la sera, con l’odore della risacca e della macchia che penetra nelle narici.

Ed è lì, sopra Skala, che sorge l’antica cittadella. Ora non resta che qualche muretto su un’altura che domina l’isola e il mare. Agavi e libellule, e qualche lucertola enorme fra i sassi.

Il viaggio a sud è in salita. Seguo la strada della costa, tra gli eucalipti e le panchine che fissano l’Egeo. Mi lascio, per ora, sulla destra l’altura di Chora, con il monastero svettante sulla cima, e prendo per Grikos e per la baia di Kalikatsou. Qualcuno dice che è qui che Giovanni ha avuto la sua visione, su questo scoglio a forma di teschio che si protende nel mare a guardia della baia. Eremo, chiesa bizantina, covo di pirati e nucleo di leggende perdute. Correnti calde, attorno alla sua roccia, si alternano a correnti fredde. Praterie di posidonie, spugne e stelle marine sul fondale, assieme ai resti di un passato obliato.

Da Grikos proseguo ancora verso sud, fin dove arriva la strada. Poi imbocco la mulattiera che, tra asini e capre, porta alla spiaggia di Psili Ammos. Sabbia fine, sottile come un sogno. Le tamerici ombreggiano i bagnanti stesi al sole. Mi arrampico sulla scogliera, me la godo tutta con un solo colpo d’occhio mentre i cavalloni spazzano la risacca. Divina.

Ritorno a Skala passando per l’entroterra, salendo i tornanti infiniti che portano a Chora, immerso nell’odore lattiginoso dei fichi.

Chora è glauca della luce del mezzogiorno. Abbagliante, silenziosa a quest’ora. Mi perdo nel dedalo di stradine alla ricerca di un sorso d’acqua.

Anche la strada che da Skala porta a nord comincia in salita, per poi declinare verso mille calette di ciottoli levigati e di acque cristalline.

Alla spiaggia di Kampos si ferma il turismo. Dopo c’è solo il deserto. Nel mio ramingare non incontro anima viva, se non le capre che pascolano all’ombra dei radi alberi e dei muretti a secco in un paesaggio brullo e riarso.

Barche abbandonate sulla spiaggia, mangiate dalla salsedine e dal vento.

Alla fine della strada, una sedia sfondata guarda il mare – lontano.

Σ.

 

[1] Apocalisse 1.9-11 (trad. CEI 2008).

[2] Archimandrita Antipas Nikitaras, “Guida al Santo Monastero di San Giovanni il Teologo di Patmos”, Santo Monastero di San Giovanni il Teologo 2014, p. 82.

2 Risposte a “Patmos. Alla fine della strada”

  1. Quello che vedi, scrivilo….
    E io, mentre leggo,
    sento nelle narici odore
    di origano
    e mi vien voglia di tornare
    alle origini.

    1. Grazie Beppe, dovremmo tutti tornare alle origini. Almeno con la memoria. Almeno ogni tanto…

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