Principi dei pendii

Rochemolles, al principio di giugno, dopo le grandi nevicate.

Le slavine dell’inverno passato hanno lasciato cicatrici profonde sui pendii. Larici spezzati e portati a valle e, dove le radici hanno retto l’impatto della neve, quel che rimane dei tronchi è spaccato per lungo, monumento alla forza della valanga.

Nella diga, grandi blocchi di ghiaccio galleggiano ancora, come in una qualche banchisa al disgelo.

“Lassù! È strano, in genere stanno più in basso”.

Seguo il dito puntato ed ecco, là, sul pendio erboso, il primo stambecco della giornata. È per loro che siamo venuti.

“Due, tre, quattro,… otto. Sono otto?”

Sono molti di più, sparsi sulle pendici del monte di fronte a noi.

Attraversiamo un nevaio, quel che resta dell’ennesima slavina. La neve è dura e compatta, sporca di terra e di vegetazione. I peli di un camoscio sparsi qua e là ci portano presto a ciò che rimane dello sfortunato proprietario.

Un bel volo avvolto dalla neve.

Qualcuno s’è spartito la carcassa; solo le corna rimangono, nere, sul bianco sporco della slavina.

Il sentiero comincia poco oltre, e zig-zaga tra le anemoni, che danzano, leggere, scuotendo al vento la bianca corolla. Ma il vento porta anche la nebbia sulla cima dei monti.

Il sentiero attraversa i torrenti nivali e ben presto si perde nel prato. Procediamo in luoghi scoscesi, lungo il pendio. A quattro zampe ci si muove meglio quassù, come gli stambecchi che seguiamo.

Loro regnano su questi prati verticali.

Si fanno ammirare sulle scabre rocce e sui poggi erbosi, l’odore selvatico che entra nelle narici. Poi, quasi danzando su una cengia di neve, superano in processione la cascata, correndo dove le nostre gambe non possono andare. E se ne vanno così, inghiottiti dalla nebbia che scende.

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