STAMBECCHI, CAPRE E UNA TOMA ASSASSINA

Ero salito all’Orsiera in una giornata di fine giugno. Le nuvole s’elevavano dal fondovalle come banchi di nebbia escludendo l’orizzonte. E sotto la cima, nella conca dove s’ergono i grezzi muri della Bergeria Ciardonnet, dalla nebbia erano apparsi gli stambecchi.

Sono una presenza che ormai diamo quasi per scontata, eppure quanto è intenso guardare negli occhi il re della montagna! In quegli occhi quasi malinconici, che sembrano celare il ricordo della loro storia. Sterminati, ridotti sull’orlo dell’estinzione dalla caccia indiscriminata, agli inizi del XIX secolo non ne rimaneva che un centinaio confinato tra i picchi del gruppo del Gran Paradiso. E ha il sapore di un trattato politico, da re a re, da pari a pari, la protezione accordata da casa Savoia che ha permesso agli stambecchi di riconquistare il loro regno alpino.[1]

Ci sono poi tornato, all’Orsiera, sperando di incrociare di nuovo lo sguardo ambrato del re. Ma non c’erano stambecchi, quel giorno. Solo pecore. E capre. Tante. Il gregge al pascolo sulle montagne ha un che di atavico, di ancestrale. Quante generazioni di capre, prima di queste, hanno calcato queste stesse rocce, hanno brucato questa stessa erba? Quante generazioni di pastori le hanno seguite su per i pendii alpini e ne hanno raccolto il latte per trasformarlo in formaggio?

E chissà che non venisse proprio da queste montagne quella toma che, nel 161, viaggiò verso Roma. C’è chi si è divertito a esplorare l’impero romano seguendo il viaggio di una moneta. Quanto più strano sarebbe seguire una toma! Era nata in alta quota, e portava nel gusto l’aria della montagna. Pare che l’imperatore ne andasse matto. Portata a valle, aveva viaggiato sulla strada costruita da Cozio quasi due secoli prima; aveva attraversato Augusta dei Taurini, e s’era poi incamminata alla volta della Capitale. O meglio, di Lorium. Era lì, infatti, fuori dalla confusione di Roma, che il settantenne Antonino Pio amava trascorrere le proprie giornate. E quella toma nata tra i venti alpini arrivò sulla sua tavola una sera d’inizio primavera. Ed era buona.

Buona da morire.

Mors autem eius talis fuisse narratur: cum Alpinum caseum in cena edisset avidius, nocte reiectavit atque alia die f[r]ebre commotus est.[2]

Σ.

 

[1] Laura Canalis, I mammiferi delle Alpi. Come riconoscerli, dove e quando osservarli, Blu Edizioni, Torino 2012, p. 246.

[2] Historia Augusta, Ant. Pius 12.4.1-5.1. / “E si racconta che tale sia stata la sua morte: avendo cenato avidamente con del formaggio alpino, la notte vomitò, e il giorno seguente fu preso dalla febbre”.