Il serpente pallido e la fata Elvira

È una calda giornata di maggio sulla roccia della ferrata di Caprie, ma il sentiero che discende dalla rocca è fresco, all’ombra. I piedi si muovono veloci sulla terra battuta e fra i sassi poi, a un tratto, uno squarcio nella canopia lascia filtrare una lama di luce. Sembra quasi una tenda, un sipario, un’orchestra su cui danzano milioni di piccole particelle di polvere, leggere. Ne seguo l’incanto fino al suolo e lì, adagiato sulla lettiera del bosco, fra le foglie secche delle querce e i ricci dei castagni, un grosso biacco si crogiola al sole.

Mi avvicino, piano, per vederlo meglio, quel tanto che basta per non spaventarlo.

Biacco… come biacca, dal longobardo blaich, che indica qualcosa di pallido, di sbiadito.[1] Così dicono i dizionari, almeno. Ma che cosa abbia di pallido questo serpente rimane un mistero. Tanto più se si considera che gli esemplari che si trovano nella zona orientale dell’arco alpino e nell’Italia meridionale sono melanici, completamente neri. Sono, queste, popolazioni che raccontano una storia antica di milioni di anni. Raccontano di quando i ghiacci coprivano gran parte dell’Europa e le temperature erano più basse. Raccontano di come la selezione naturale avesse, allora, favorito una mutazione che rendeva i serpenti completamente neri, potenziando, di fatto, la loro capacità di scaldarsi al sole e garantendone la sopravvivenza.[2] Poi le temperature sono risalite, e i biacchi non melanici sono tornati a diffondersi. Più che il nome comune, è il nome latino ad evidenziarne il colore: Hierophis viridiflavus – verde e giallo appunto. Ma un verde scuro, praticamente nero, che forma eleganti barrature su un campo giallo o biancastro. Forse, come vogliono alcuni, il colore non c’entra nel nome comune del biacco, ma la parola deriverebbe dal latino baculu(m), ‘bastone’, da cui baclu(m), *blaccu, e, finalmente, biacco.[3]

La vita del biacco comincia d’estate, quando, tra giugno e luglio, la madre depone 5-15 uova oblunghe negli umidi mucchi di foglie in decomposizione, nei buchi del terreno o sotto i massi. Dopo un mese e mezzo – due, i piccoli serpenti, già lunghi una ventina di cm, bucano il guscio con un dente apposito e fanno il loro ingresso nel mondo. E dovranno aspettare quattro anni prima di raggiungere la maturità sessuale e poter a loro volta, aggrovigliati tra le foglie secche, concepire il mistero della nuova vita.[4]

Privo di veleno ma agilissimo e mordace, il biacco è un ottimo cacciatore in grado di predare micromammiferi, lucertole, ramarri, altri serpenti (comprese le vipere), anfibi, nidiacei, ortotteri.[5]

È uno dei serpenti più comuni in Italia, ma l’occhio del biacco ha qualcosa di ipnotico. «Sai a cosa mi riferisco, Gandalf. Un grande occhio, senza palpebre, avvolto nelle fiamme».[6] Un occhio di fuoco che, ben prima che Tolkien concepisse la Terra di Mezzo, aveva, in Valsusa, dato origine a ben altre storie. È la storia della fata Elvira, più strega, forse, che fata, che rianima i cadaveri e li porta con sé in processione generando pestilenza e tempeste

 

com’ella in serpe si trasforma e move

rote di fiamme intorno agli occhi e zufola.

Con molli spire, e pigri e vari modi;

si stende, o attorce in replicati nodi.[7]

 

È davvero uno Hierophis, un serpente sacro, soprannaturale.

Σ.

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[1] DELI, s.v.

[2] Marco A. L. Zuffi, Colour pattern variation in populations of the European Whip snake, Hierophis viridiflavus: does geography explain everything?, «Amphibia-Reptilia» 29, 2008, 229-233.

[3] DELI, s.v.

[4] Roberto Sindaco, Le uova di biacco, «Piemonte Parchi» 25, settembre-ottobre 1988, pp. 21-23.

[5] Stefano Bovero, Laura Canalis, Stefano Crosetto, Gli anfibi e i rettili delle Alpi. Come riconoscerli, dove e quando osservarli, Blu Edizioni, Torino 2013, p. 129.

[6] Il Signore degli Anelli. La Compagnia dell’Anello (The Lord of the Rings. The Fellowship of the Ring, Peter Jackson, 2001).

[7] Maria Savi-Lopez, Leggende delle Alpi, Loescher, Torino 1889, p. 271.