Il lago Ciardonnet e la fata dell’Orsiera

È solo alla fine di giugno, quando i prati alpini si riempiono di fiori, che il lago Ciardonnet comincia a liberarsi dalla morsa del gelo. È solo allora che, velata dalle nebbie che salgono dal fondovalle, traspare l’acqua blu scuro, chiazzata dell’algido lucore di zattere di ghiaccio che navigano pigramente come pezzi di banchisa alla deriva.

Un ermellino le osserva dalla sponda, poi, saltando sulla neve, sparisce nella tana.

Lago dei Neri lo chiamavano una volta, forse in ricordo degli orsi da cui anche il monte, che lo sovrasta come un altare, ha preso il nome.

E chissà che dietro le leggende più recenti non si celi proprio Artio, la dea degli orsi del mondo celtico. Chissà se, rimasta sepolta nella storia, la sua immagine non sia stata riplasmata, adattata a nuove credenze, trasformata in una fata.

Ché proprio di una fata dell’Orsiera narra una leggenda.

L’inverno era passato, e i pastori avevano portato le greggi in alto, a gustare l’erba nuova. Ma il lago era ancora ghiacciato. Una candida distesa avvolgeva l’invaso. Perché fare il giro? Perché allungare la strada per raggiungere i pascoli? Il ghiaccio regge – aveva pensato un pastore – possiamo passarci sopra. E si era lanciato, cavalcando un montone, sul lago. Ma il ghiaccio era infido e dapprima tenne; poi, quando l’improbabile cavaliere fu al centro della conca, una crepa si aprì sotto le zampe della cavalcatura e le strida della sua corsa riecheggiarono nell’eco.

Una lastra di ghiaccio si capovolse.

Il bagliore di un blu profondo.

Poi, con un tuffo, il ghiaccio si richiuse sopra i malcapitati.

La temperatura dell’acqua era prossima allo zero; le possibilità di riemergere nulle; il respiro limitato. Ma fu allora che accadde l’insperato. Mentre gli altri pastori accorrevano gridando sulle sponde del lago, sott’acqua, davanti agli occhi del giovane si materializzò una figura eterea, arcana, stupenda.

Gli sorrise, e un bagliore avvolse, per un attimo, la conca.

I pastori invano cercarono il ragazzo; inutilmente spaccarono il ghiaccio. Il suo corpo non c’era. Né quello del montone.

Furono ritrovati il giorno dopo, confusi ma salvi, mentre vagavano sulle sponde del lago di Avigliana.[1]

Perché, in fondo, i laghi alpini non sono che lacrime incastonate tra le rocce, ma nessuno ne conosce i fondali né gli oscuri recessi che nel mondo del mito li collegano tutti fra loro.

Σ.

 

[1] Diego Priolo, Laghi Lac Lau, Alzani editore, Pinerolo 2010, pp. 133-134.