Quei boschi di pecci sotto la Grand’Hoche

Chateau, una fredda mattina di gennaio. Il paese è in ombra: il sole ancora deve spuntare da dietro i monti, ma già i primi raggi lambiscono i dolci pendii del Forte, dove piccoli punti scuri si muovono tranquilli fra l’erba secca. La neve ghiacciata scricchiola sotto gli scarponi mentre mi avvicino al cannocchiale. La sua lente trasforma i punti in camosci. Non c’è neve sul Forte; solo prati assolati, e i camosci pascolano godendosi il primo tepore dopo il gelo della notte.

Poi, finalmente, il sole si alza, e dardi di luce colpiscono anche il bosco alle nostre spalle. Punta Clotesse e la Grand’Hoche risplendono del candore della neve e, ai loro piedi, s’adagiano grandi boschi di conifere. Qualche pino arrogante impone la sua presenza in un mare altrimenti composto solo d’abeti e di larici che mischiano i loro rami nudi nella canopia sempreverde.

Sono abeti rossi, o pecci, quelli che crescono qui, a caccia dei deboli raggi del sole invernale. Sono alberi dei climi freddi, col tronco cilindrico rossastro e coni penduli; cari, nei tempi che furono, ai popoli di stirpe germanica e inglobati, in seguito, nella cultura cristiana come alberi di Natale – carichi di addobbi come istoriato di festoni di ghiaccio era apparso, narrano i vecchi, quel peccio che, nel riparo delle sue fronde, aveva offerto un sicuro rifugio a un bambino perdutosi in una notte di bufera.[1]

Peccio, come il nome latino Picea abies, da pece, perché nella Francia centro-settentrionale con la  sua resina, mescolata alla cera, si produceva un balsamo utile per le affezioni reumatiche e polmonari passato alla storia come Pece di Borgogna.[2]

Ma non è solo l’uomo ad apprezzare l’abete. In inverno, quando la neve alta copre l’erba, i cervi banchettano con le sue fronde, e del cervo incrociamo le orme, appena entrati nel bosco.

Proseguendo tra gli alberi, oltre il rifugio Guido Rey, sul sentiero verso la fonte di S. Giusto, una grande frana testimonia un’altra caratteristica degli abeti. Sono alberi slanciati, ma le loro radici rimangono in superficie, abituate a cercare l’acqua nelle poche decine di centimetri di terreno che, nelle tiepide estati del Nord, disgela. Più in profondità sarebbe inutile andare: l’acqua è sequestrata dal permafrost.[3] E poco importa se il suolo profondo, qui, non è gelato. Questo relitto di un’epoca di ghiacci non crede al riscaldamento globale e preferisce allargarsi in orizzontale, insinuandosi fra le rocce, cercando la terra bagnata di rugiada e di pioggia. Ma proprio la pioggia, se troppa e unita a un vento possente, gli toglie l’appiglio, lo sradica, lo ribalta con le radici all’aria e i rami al suolo.

Ma non è un gran problema, per il peccio, trovarsi coi rami sul suolo. Dopotutto, anche la neve, che cade abbondante nel suo areale, grava del suo carico i rami più bassi, spingendoli a terra. Ha sviluppato un potere particolare l’abete: la capacità di riprodursi per propaggine.[4] I rami, a contatto col suolo, radicano, e una nuova pianta, identica alla madre, ne nasce. È grazie a questa abilità che gli abeti rossi sono sopravvissuti per migliaia di anni ai rigori del clima dell’estremo nord. Sulle montagne della Scandinavia, dopo l’ultima glaciazione, crescevano bassi e prostrati al suolo, spazzati dai venti freddi: krummholz, cespugli squassati dal vento.[5] Nell’ultimo secolo, però, le temperature sono salite, e con esse i tronchi degli abeti delle montagne svedesi come l’Old Tjikko, il più vecchio di tutti. Questo patriarca si presenta come un ammasso di rami bassi a livello del suolo dal cui centro si innalza, per 5 metri, un tronco spelacchiato. Tutto tranne che imponente, la sua vetustà è però confermata dai ritrovamenti di pigne e frammenti di legno nelle immediate vicinanze che, datati al radiocarbonio, risultano vecchi di 375, 5660, 9000 e 9550 anni! Si potrebbe pensare a frammenti di alberi diversi, succedutisi nel corso della storia, se non fosse che le analisi dimostrano che il patrimonio genetico di tutti i frammenti è identico a quello dell’albero attuale. Un unico albero, insomma, che da novemilacinquecento anni continua a rigenerarsi, incurante del gelo e del vento, sulle montagna della Svezia.[6]

Ma se l’Old Tjikko nulla ha della maestosità che ci si potrebbe aspettare da un albero di una simile età, ben diverso è lo Sgermova smreka, a cui va la medaglia del primo classificato in altezza. Con una circonferenza del tronco di 3,90 m, si slancia verso il cielo in una foresta della Slovenia per ben 62.26 m.[7] 26 cm in più, tanto per capirci, della piramide di Djoser a Saqqara.

 

Potrai essere abete slanciato in alto, denso di ombra e verdeggiante di fronde, studiandoti di meditare le altissime verità, di contemplare le cose celesti… sapiente delle cose dell’alto, non di quelle della terra.[8]

Σ.

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[1] Milena Ortalda, Abete, «Piemonte Parchi» 161, dicembre 2006, pp. 46-47.

[2] Ernesto Riva, L’universo delle piante medicinali. Trattato storico, botanico e farmacologico di 400 piante di tutto il mondo, Tassotti Editore, Bassano 2011 (19951), p.24.

[3] http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?t=8560

[4] http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?t=8560

[5] http://scitech.blogs.cnn.com/2008/05/06/oldest-tree-in-world/

[6] http://info.adm.umu.se/NYHETER/PressmeddelandeEng.aspx?id=3061

[7] http://www.monumentaltrees.com/en/svn/koroska/ribnicanapohorju/4254_sgermovakmetija/

[8] Codice forestale camaldolese, citato in M. Ortalda, op. cit., p. 46.