IL LARICE DI SAN GIUSTO

lariceIn montagna, dove la roccia si spacca sotto la spinta liquida del ghiaccio, dove si sfalda rotolando sui ghiaioni e si deposita in piccole valli – dove giacciono le frane nel loro inquieto riposo, il suolo è giovane e povero, lontano dall’ubertosa maestà dei terreni alluvionali. L’acqua ruscella via infiltrandosi fra i sassi, e la materia organica è pressoché assente.

Ma, in quello che sembra un deserto di pietre scheggiate abbacinate dal sole e spazzate dal vento, le piante pioniere affondano le loro radici trattenendo la massa franosa, preparando la via per la vita.

E pioniera, sulle nostre montagne, è la pianta di Larix decidua, che osa spingersi fino al limite estremo della crescita arborea, a 2200-2400 metri sopra il livello del mare. La sua chioma di soffici aghi sottili non impedisce il passaggio alla luce, permettendo al sottobosco di prosperare. Ma è d’autunno che il larice dona, come un Cristo silvano, il proprio corpo per il bene del bosco. Le sue foglie, diversamente da quelle delle altre conifere, seccano, regalando visioni di canopie auro-aranciate, e cadono. Cadono, e si depositano sul suolo giovane e sterile formando, anno dopo anno, un soffice tappeto rossiccio. E, giacendo lì a terra, cominciano pian piano a decomporsi, a mischiarsi allo strato minerale del suolo arricchendolo di materia organica, rendendolo sempre più fertile e in grado di supportare altre forme di vita. Ed ecco che, quando il lariceto ha compiuto la propria missione, tra i suoi aghi caduti a terra, spuntano, a bere il sole che filtra tra le sue fronde rade, ombrosi pini e abeti che, in autunno, punteggiano di verde cupo l’altrimenti dorato fogliame. E man mano che crescono i sempreverdi, il larice, che ama il sole, sotto la loro ombra non riesce più a far germogliare i propri semi, fino al punto in cui cede il passo definitivamente a quegli altri alberi a cui ha preparato la strada.[1]

Così come il suolo si rigenera grazie al larice, anche l’uomo ha saputo trarre dalla pianta materia per curarsi. La sua abbondante resina (che serve all’albero per chiudere le proprie ferite e che rende le travi ricavate dai suoi tronchi assai resistenti alle intemperie) contiene infatti significative percentuali di alfa e beta pinene, monoterpeni biciclici dall’azione antisettica ed espettorante.[2]

Ma i lariceti di oggi non sono che l’ombra di quelli di un tempo. In epoca romana, la fama delle foreste delle Alpi e del lignum gallicum viaggiava per tutto l’impero – alberi colossali che si arrampicavano sulle rocce fin quasi a 3000 metri di altezza.[3]

Era probabilmente uno di questi alberi millenari che cresceva, ancora in X secolo, nei boschi sopra Beaulard, vicino alla grotta e alla fonte di San Giusto. Il suo tronco torreggiava con sette punte svettanti e le sue foglie, stando alla leggenda, non cadevano d’inverno. Giusto e l’amico Flaviano salivano tra i suoi rami e, da lassù, lo sguardo spaziava per la valle. Fu di lì che scorsero il fumo dell’incendio appiccato dai Saraceni alla chiesa di S. Lorenzo a Oulx e le anime dei martiri che abbandonavano la città in fiamme e salivano al cielo.

Venerato come un albero sacro, forse residuo di qualche culto druidico a cui si sovrappose l’immagine del santo navaliciense, fu infine abbattuto da un tale Médail di Puy Beaulard, salito al bosco a fare legna. Ma l’abbattimento di un albero sacro non passa impunito, e il boscaiolo sacrilego vide morire uno dopo l’altro i propri figli, l’ultimo dei quali si spense proprio contro il tronco di un larice, schiacciato dal suo carro.[4]

Σ.

 

[1] Piero Belletti, Quattro passi in montagna… a due passi da Torino, Pro Natura Torino, Torino 2009, pp. 123-124.

[2] Ernesto Riva, L’universo delle piante medicinali. Trattato storico, botanico e farmacologico di 400 piante di tutto il mondo, Tassotti Editore, Bassano 2011 (19951), p.23.

[3] Natalino Bartolomasi, Valsusa antica. Volume I, Editrice Alzani s.a.s., Pinerolo  1975, p. 192.

[4] Natalino Bartolomasi, Valsusa antica. Volume II, Editrice Alzani s.a.s., Pinerolo  1985, p. 510.