Il fiore ambiguo

Aprile. La roccia del nemeton è tiepida; i fiori e gli insetti hanno ripreso vita dopo la parentesi invernale. La cercavo da un po’, ed ero quasi sul punto di andarmene a mani vuote. Sapevo che c’era, da qualche parte, eppure sfuggiva alla mia vista.

Un sigillo di Salomone punteggiava il sottobosco con i suoi fiori bianchi, pendenti come piccole medaglie di platino sul bordo del sentiero. Mi sono chinato a guardarlo, e, finalmente, eccole: due piccole piante di aristolochia.

Era un periodo in cui il suo nome spuntava un po’ ovunque, nelle chiacchierate come in università, così avevo deciso di venirla a cercare. E ora era lì davanti a me, piccola, esile, con quel suo fiore strano e rigonfio. Aristolochia pallida. Già il nome evoca qualcosa di piccolo e malaticcio, ben lontano dalla vitale esuberanza delle sue cugine tropicali. Eppure, in fin dei conti, non è così diversa.

Tanto piccole le piante di quel giorno di aprile, quanto grandi, invece, sono le storie che evocano.

A vederle così, tutta l’attenzione s’incentra immediatamente sul fiore. Un’anfora formata dai sepali fusi insieme e terminante con un vessillo colorato. Una forma ambigua, che ricorda quella di piante carnivore come Sarracenia o Nepenthes.

Una trappola.

Eppure, la trappola dell’aristolochia non è mortale per i piccoli ospiti. Attira dei moscerini la nostra Aristolochia pallida: ditteri del genere Megaselia. E lo fa rilasciando nell’aria molecole che ricordano loro l’odore del cibo assieme, forse, a dei feromoni.[1] L’insetto entra nel fiore fiutando false promesse, percorre il lungo tubulo, raggiunge il ginostemio (la parte alla base del fiore, dove, in un rigonfiamento dell’anfora, sono presenti gli stami fusi con lo stilo) e, una volta lì, non può più uscire. Se si volgesse a tornare indietro da dove è venuto, numerosi e fitti peli, che prima ha superato senza problemi, ora, orientati verso di lui come una barriera impenetrabile, gli bloccherebbero la strada. D’altro canto, in questa zona i sepali sono sottili, e la luce del sole filtra nel carcere ingannando il piccolo prigioniero, che crede di poter uscire di lì e ci va a sbattere contro, come una mosca contro una finestra.

Non gli resta che avere pazienza, perché la pianta ha i suoi tempi. Il fiore, in questa prima giornata di fioritura, è nella sua fase femminile. Il moscerino dovrà passare la notte in cella, nutrito dal nettare zuccherino che l’aristolochia produce apposta per lui. Il giorno successivo, il fiore entra nella fase maschile; gli stami producono granuli di polline; e l’insetto se ne ricopre. Missione compiuta. Ora il fiore può cominciare ad appassire e l’ostaggio è libero di andare. Ma solo per finire di nuovo prigioniero di un altro fiore in fase femminile a cui recherà, senza saperlo, la promessa di una nuova vita.

E non è solo la forma del fiore a essere ambigua. Anche la storia dell’aristolochia non scherza. Ed è una storia che comincia da lontano, almeno, per quel che ne sappiamo, dai tempi in cui gli Achei decisero di muover guerra a Priamo perché suo figlio era scappato con  una donna sposata…

L’assedio di Troia ha già visto cadere tanti uomini, nell’uno come nell’altro schieramento, e, a un certo punto, da qualche parte nel libro 11 dell’Iliade, i Troiani incalzano i Greci e li spingono indietro fino alle navi. La giornata volge al peggio per gli invasori ed Euripilo, ferito, ripiega verso l’accampamento con una freccia troiana conficcata nella gamba.

Patroclo gli si fa incontro.

«Alunno di Zeus – lo apostrofa il ferito – salvami! Conducimi alla nave nera, estrai la freccia dalla coscia e lava il sangue scuro con l’acqua tiepida. Applica dei medicamenti efficaci, di quelli che si racconta che Achille stesso ti abbia insegnato – e a lui li insegnò Chirone, il più giusto dei Centauri».

Patroclo lo accompagna alla tenda, lo fa stendere per terra, su una pelle, ed estrae il dardo. Poi pone sulla ferita una radice amara buona a calmare il dolore, schiacciandola fra le mani.

E la ferita secca; stagna il sangue.[2]

Omero poi va avanti a raccontare il resto della battaglia, ma qui occorre fermarsi un attimo a leggere l’annotazione che ha lasciato lo scoliasta antico commentando il testo del poeta. In merito a questa radice portentosa, i suoi appunti recitano pressappoco così: «Dicono che sia quella che chiamano aristolochia».[3]

Una pianta medicinale, dunque, l’aristolochia!

Così parrebbe, e così è stata impiegata per secoli dai popoli di quasi tutto il mondo.[4]

Senonché…

Era il 1993 quando cominciarono a comparire i primi indizi della sua tossicità. Una tossicità latente, che può manifestarsi anche anni dopo l’uso della pianta e che, fino ad allora, era passata quasi del tutto inosservata. Una tossicità che può portare al cancro, dovuta alla presenza di acidi aristolochici, che si ritiene siano presenti in tutte le piante del genere Aristolochia.

È cominciato in Belgio, dove 100 donne sviluppano gravi problemi renali dopo aver assunto, per sbaglio, aristolochia in luogo di un’altra pianta. Poi si scopre che problemi simili erano già presenti nei Balcani dove, guarda caso, Aristolochia clematitis infestava le colture di frumento. E a Taiwan, dove la medicina tradizionale faceva largo uso di aristolochia.[5]

Per evitare ulteriori danni, tutte le specie di aristolochia vengono bandite dalla medicina e dalla cosmesi, almeno in Occidente, e ora non resta che osservare la pianta per quel che è: un fiore ambiguo con una storia davvero particolare.

Ma una farfalla, forse, potrebbe raccontare una storia diversa…

Σ.

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[1] Claudia Erbar, Anna Heiler, Peter Leins, Nectaries in fly-deceptive pitcher-trap blossoms of Aristolochia, «Flora» 2016.

Björn Rulika, Stefan Wankeb, Matthias Nussa, Christoph Neinhuisb, Pollination of Aristolochia pallida Willd. (Aristolochiaceae) in the Mediterranean, «Flora» 203, 2008, 175-184.

[2] Omero, Iliade 11.829-848.

[3] Schol. Ad Hom. Il. 11.486; Schol. Ad Hom. Il. 11.485.

[4] Per approfondimenti sulla storia delle piante del genere Aristolochia, sui loro impieghi etnobotanici e sulla scoperta della loro tossicità rimando a Simone Siviero, Quando la tradizione d’uso non basta. La storia dell’Aristolochia, «Erboristeria Domani» 403, luglio-agosto 2017, 70-75 e relativa bibliografia.

[5] Arthur P. Grollman, Donald M. Marcus, Global hazards of herbal remedies: lessons from Aristolochia, «EMBO reports» 17, 5, 2016, 619-625.