La tigre del Musinè

Lunedì di settembre dopo le prime nevicate in alta quota. Caldo. Passata la perturbazione, è tornato il caldo. Fa sempre caldo, sul Musinè.

Salgo da solo, accompagnato da mille farfalle.

In cima, mi sdraio al sole e mi perdo a guardare l’azzurro del cielo.

Ma qualcosa, a un tratto, attira la mia attenzione. Poco lontano, vicino a un masso, un movimento frenetico, un ritmico sobbalzare avanti e indietro di una grossa tela di ragno. Qualcosa ha disturbato un’argiope. Non sono l’unico a godersi il sole su questo prato riarso che è la cima del monte.

Probabilmente non mi sarei accorto di lei, se non si fosse messa a ondeggiare, tozza e pesante, al centro della sua tela. Il motivo a strisce gialle e nere sull’opistosoma (segno di pericolo e veleno) la rendeva quasi invisibile ai miei occhi, mimetizzata, come una tigre in agguato, tra l’erba secca e i sassi. Ma quando qualcosa la disturba reagisce così. Balla.

Mi avvicino a osservare.

Argiope bruennichi ama il caldo.[1] La si ritrova sui prati a fine estate, dove tesse, nell’erba alta, grandi ragnatele e sta lì, in attesa. E, se non bastasse la sua livrea così vivace a identificare la femmina di argiope (il maschio è più piccolo e meno appariscente e, in genere, subito dopo l’accoppiamento diviene parte integrante del banchetto nuziale), la sua tela reca un marchio di fabbrica: una candida striatura zigzagante che attraversa l’opera in verticale. Talvolta è completa; talaltra solo abbozzata. Né è ben chiara la sua funzione. Stabilimentum si chiama, e c’è chi pensa che possa servire a rendere più robusta la tela. Ma è solo un’ipotesi. Forse serve a mascherare il ragno, che si pone al suo centro; o forse a rendere la tela manifesta agli uccelli così che possano evitarla. Ma la seta speciale dello stabilimentum riflette i raggi ultravioletti, che molti insetti percepiscono: è forse una trappola?[2]

La fila di notte, la tela. E ricordo un altro incontro quest’estate, sulla stessa montagna, quando il sole era già tramontato. Tesseva tra due piccoli alberi posti ai lati del sentiero, muovendosi come una funambola spettrale – una sagoma scura contro la luce della luna.

Una volta che la tela è pronta, attende. Attende prede anche più grandi di lei, come le grosse e incaute cavallette. E, quando, finalmente, una rimane impigliata nei fili sericei, aiutandosi con le zampe posteriori, avvolge la vittima in un sudario di seta e la colpisce con un morso velenoso che la getta in uno stato di torpore.[3] No. Non la uccide.

“Carrion! Is that all you know of Her Ladyship? When she binds with cords, she’s after meat. She doesn’t eat dead meat, nor suck cold blood. This fellow isn’t dead!”[4]

Solo dopo un po’ ne succhia i liquidi vitali, lasciando poi cadere a terra una carcassa vuota e rinsecchita.

E deve mangiare tanto, ché l’inverno si avvicina, e lei ha ancora un compito da portare a termine prima di abbandonarsi all’abbraccio della morte che arriva col freddo. Un compito che richiederà tutte le sue energie e la lascerà stremata: deporre le uova. Costruisce, tra la bassa vegetazione, un ovisacco rotondo, come un piccolo palloncino bruno, impermeabile e isolante e, al suo interno, sigilla le uova, garantendo loro protezione dal rigore invernale.[5]

Finché, al tepore del sole di aprile, centinaia di piccoli ragni non ne escono e, appesi a un filo di seta, si fanno portare a spasso dal vento.[6]

Σ.

 

[1] Heiko Bellmann, Guida ai ragni d’Europa, Franco Muzzio Editore, Roma 2011, p. 154.

[2] Francesco Tomasinelli, Argiope, il ragno del sole, «Piemonte Parchi» 185, maggio 2009, pp. 26-27.

[3] J. Henri Fabre, The Life of the Spider, Hodder and Stoughton, London 1912, cap. II.

[4] J. R. R. Tolkien, The Two Towers, George Allen & Unwin, London 1954, cap. The Choices of Master Samwise.

[5] Fabre, op. cit., cap. II.

[6] Tomasinelli, op. cit., p. 27.