Frassini, abeti e baite abbandonate

anderichard1913 si legge ancora sul muro di una piccola costruzione in pietra. Poi più nulla. Gli altri edifici sembrano più antichi. Resti di vita del XIX secolo fagocitati ormai dal bosco. Poche baite, costruite con le pietre del posto. I tetti di lose hanno retto al carico della neve, ai venti e all’urto dei rami. Solo qualche muro qua e là s’è accasciato, stanco, sotto il peso di un albero crollato. Il muschio fodera la pietra con un soffice, umido velluto. Grondaie di legno un tempo collegavano i tetti fra loro. Raccoglievano le gocce di pioggia e i piccoli rivoli della neve disciolta. Raccoglievano l’acqua vitale in una zona senza sorgenti e la convogliavano nella cisterna. La catena regge ancora; ancora c’è la latta che consentiva di prelevare il prezioso liquido. Ma le grondaie sono cadute. Giacciono, ora, sul suolo, o ballano al vento pendendo dai tetti, giostrandosi su un filo di ferro arrugginito.

Pochi ormai conoscono la strada per Anderichard.

La via è chiusa. Il sentiero fu tracciato da coloro che sono morti, e gli alberi lo custodiscono. La traccia s’è persa nel bosco e nel tempo. Camminiamo sulle piste dei cervi, su un soffice tappeto di foglie di frassino. Quando arriva l’autunno, Fraxinus excelsior perde le foglie ancora verdi[1] e, complice la precoce nevicata, il suolo ne è tappezzato. E un frassino s’innalza in mezzo alle baite. La neve ne ha spezzato alcuni rami, che ora ricoprono i tetti.

So che un frassino s’erge,   Yggdrasill lo chiamano,

alto tronco lambito   da limpide acque;

di là vengono rugiade   che piovono nelle valli.

Sempre s’erge, verde,   sopra la sorgente di Urdhr.[2]

Per i popoli scandinavi, il frassino è l’albero cosmico. I suoi rami si protendono fino ad Asgardh, la sede celeste degli dèi; il suo tronco attraversa Midhgardh, la Terra di mezzo dimora dell’uomo, e le sue tre possenti radici sprofondano nei regni sotterranei, da dove scaturiscono i fiumi e le sacre sorgenti, come quella custodita da Urdhr, ‘Destino’, la Norna – originariamente sola, poi triplicata sotto l’influsso delle Parche del mondo greco-latino.[3]

Ma qui non vi è nessuna sorgente sacra. La Fontana dell’Orso dista da qui un buon tratto di malagevole cammino nel bosco. Nessuna norna custodisce la cisterna dell’acqua.

Né Odino si è mai sacrificato appendendosi a quest’albero pei poi risuscitare colmo di profetica saggezza.

Ma se gli antichi dèi del Nord non hanno mai messo piede in quest’angolo di bosco all’ombra del monte Villano, altri echi risuonano tra i muri di pietra. Voci di uomini, di montanari che salivano, d’estate, fin quassù a far fieno alle Lame, a falciare, appesi a una corda, prati verticali strapiombanti sull’abisso. Forse era la necessità che li spingeva così dentro al bosco; forse il bisogno di procacciarsi di che nutrire le bestie nei mesi invernali in anni in cui la montagna era più popolata e i prati migliori erano d’altri. Ma a me piace pensare che, in fondo, apprezzassero la vita semplice del bosco. Che, eremiti silvestri, seduti sull’uscio di casa, guardassero la luce del sole filtrare tra le nuvole di vapore che si alzavano dai tronchi bagnati. E mi si perdonerà l’immaginare quello sfuggente André Richard, di cui non resta che l’eco del nome nella borgata, guardarsi attorno e parlare con le parole di un suo contemporaneo d’oltreoceano, anch’egli ritiratosi nei boschi:

  A me piace comportarmi a modo mio: non passare in processione, con pompa e ostentazione, in un luogo dove tutti possono vedermi, ma passeggiare persino con il Fattore dell’universo, se posso; non vivere nell’agitato, nervoso, rumoroso e triviale diciannovesimo secolo, ma starmene avvolto nei miei pensieri (in piedi o seduto) mentre esso mi passa accanto.[4]

In piedi o seduto, con la schiena appoggiata al tronco di un frassino, a guardare il bosco. E poco oltre comincia il sapei – comincia un’ombrosa selva di abeti bianchi cresciuti fra i sassi di un’antichissima frana. Lì il passo è incerto, e le festuche scivolose celano gli anfratti che si aprono fra le rocce. Lì la luce penetra appena, avvolgendo l’aria con un vello di ferino mistero. Lì anche oggi, nella neve recente, s’intersecano le impronte del lupo.

E dicono i Finni che un lupo corresse, un tempo, sul ghiaccio. E dicono che un suo pelo si sia staccato, e che una giovane ragazza di nome Kati l’abbia raccolto e ne abbia conficcato un’estremità nella brughiera. E raccontano che da quel pelo sia germogliato il primo abete.[5]

Σ.

 

[1] Margot e Roland Spohn, Guida agli alberi d’Europa, Franco Muzzio Editore, Roma 2011, p. 212.

[2] Profezia della veggente 19, in Piergiuseppe Scardigli (a c. di), Il canzoniere eddico, Garzanti, Milano 2004.

[3] Jacques Brosse, Mythologies des arbres, Edition Plon, Paris 1989 (trad. it. Mitologia degli alberi. Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Bur saggi, Milano 2015, da cui si cita), pp. 9 ss.

[4] Henry David Thoreau, Walden, or Life in the Woods, Ticknor and Fields, Boston 1854 (trad. it. Walden, ovvero vita nei boschi, Grandi classici BUR, Milano 2015, da cui si cita), pp.407-408.

[5] Elias Lönnrot e Jon Abercromby (a c. di), The Magic Songs of the Finns, Jon Hällström Book Company, Helsinki 2011, p. 197.