LA BOCCA DEL GIGANTE – ROCA FURÀ

roca furàC’è un sentiero che da Borgone porta alle borgate montane di Chiampano e Losa salendo il pendio fra i boschi e i vigneti. Poi un cartello di legno indica “Roca Furà”, e la si scorge, in lontananza, seminascosta dalla vegetazione, la Rocca Forata. Il sentiero continua a salire, quasi scavato tra due muri di rovi. Un albero caduto, ricoperto d’edera, pare quasi l’arco d’ingresso di un qualche reame silvano, il portale dimenticato del Greenwood degli Elfi. Ci si deve chinare, per passarci sotto, come se ci si dovesse inchinare al cospetto del re del bosco.

E il bosco stesso cambia forma, dopo quell’arco d’edera. I rovi si inspessiscono, si ergono a muraglioni e lanciano i loro rami spinosi attraverso il sentiero.

Poi, finalmente, la roccia. Una parete verticale si innalza alla fine della via, e una ripida scalinata intagliata in essa conduce a una piccola piattaforma alla base della grotta. Ancora un piccolo tratto di sentiero nel folto di una macchia d’edera, e si arriva all’ingresso di Roca Furà. La polvere spaccata da generazioni di scalpellini si riversa fuori dalla grotta come bava che fuoriesce dalla bocca di un gigante di pietra.

E il sentiero procede per quella via. Passo dopo passo, facendo attenzione a non scivolare, ci si fa strada sul sabbione franoso finché non si poggiano i piedi sulla roccia, un micascisto bianco-argenteo che ha regalato, nel tempo, tante mole per macinare i cereali[1]. E tante sono ancora lì, sbozzate nella pietra in attesa che scalpellini che ormai non sono più tornino a staccarle.

Ma la sensazione di entrare nel ventre della montagna, la solitudine, la profondità del bosco e della pietra fanno passare in secondo piano gli scalpellini. Entrando nella bocca del gigante, il tempo si ferma. Si potrebbe quasi sentire la terra respirare. Lentamente. E lentamente si sale, ci si addentra nella grotta con la sensazione che il suo fondo scuro possa celare qualcosa di arcano e misterioso.

Infiltrazioni d’acqua gocciolano con ritmo lento sul pavimento della caverna.

Arrivati al fondo, coi polmoni pieni dell’odore della polvere dei secoli, si ha modo di osservare tutto il luogo con un colpo d’occhio, di scorgerne le irregolarità, di apprezzare i segni lasciati ovunque dagli scalpelli.

Ovunque. Persino sul soffitto. Una grossa macina pende dalla volta proprio sopra l’entrata, e viene quasi da domandarsi come facessero ad essere portate a valle.

La grotta pare un museo sull’estrazione delle macine. Ce ne sono di abbandonate in tutte le fasi della lavorazione. Venivano sbozzate nella roccia, poi si scavavano, tra esse e la roccia madre, dei fori in cui venivano inseriti cunei di legno bagnati che, rigonfiandosi, staccavano il blocco, creando una nicchia nella parete.

Già, ma una volta staccate? C’è solo da immaginare quale potesse essere la mole delle impalcature che, al più tardi nell’Ottocento, fosse in grado di reggere il loro peso e agevolarne il trasporto. È indubbiamente un posto scomodo per una cava, e illogica pare la collocazione di alcune macine, tanto che non sembra poi così strano che alcuni parlino di antiche civiltà megalitiche o addirittura di alieni.

Dove la mente non arriva a cogliere il mistero, ogni ipotesi si fa reale, e, voltate le spalle a Roca Furà, ci si immerge nuovamente nel bosco con qualche domanda in più che frulla, irrisolta, in testa.

Σ.

[1] Laura Fiora e Erica Gambelli, Le principali pietre da costruzione e da ornamento in Valle Susa (Piemonte), «Restauro Archeologico» 1, 2006.