LA DANZA DEI CAPRIOLI

Aprile arriva con nubi di pioggia. E salgo nel parco la sera, quando l’acqua è più fine e a tratti si scorge un pallido raggio di sole.

La montagna è deserta. Un uomo solo, pensoso, fissa assorto il Paradiso delle rane.

Ma il sentiero prosegue, vacuo d’umana presenza, con sentore di terra bagnata, nella faggeta che si risveglia pian piano. Il mondo fuori implode in uno sbadiglio d’accidia, nascosto da grigie cortine, ma la montagna vive, e danza sotto la pioggia. L’arvicola guizza veloce tra le radici del sapin; lo scoiattolo percuote giocoso i rami ancora spogli di lunghi larici slanciati.

E i caprioli cantano con voci roche antichi canti di guerra, laggiù nascosti nel bosco. Cantano l’arrivo della primavera, della pioggia feconda sulla montagna, della pioggia che monda dal gelo invernale, dell’ancestrale ritorno del verde. Cantano e danzano, saltando sicuri sui sentieri infangati e sui prati beati ammantati di crochi.

Più su, l’alpeggio abbandonato per l’inverno, sta, come pallida presenza di un’era passata, piantato nel pack di neve che scioglie, e tutt’attorno, dalle rupi rocciose, ruzzolano, rincorrendosi sul candido manto le morbide impronte delle marmotte. Ma la sera non ode i fischi d’allerta del piccolo popolo, ed il sole ormai cala in occaso dietro le nuvole nere.

Scendo, mi reimmergo nel sapei e di nuovo penetro il limes sacro delle danze dei caprioli tra il violaceo candore dei crochi ormai chiusi. Il re della festa mi guarda e tace, fiero e maestoso col palco nuovo ritto sul capo. Poi si volta e torna ai suoi riti.

E la corsa di una lepre solinga scivola silenziosa nella notte.

Σ.