L’ULTIMO RE SOTTO LA MONTAGNA

Tu regere imperio populos, Romane, memento

(haec tibi erunt artes) pacique imponere morem,

parcere subiectis et debellare superbos.[1]

Risparmia chi si sottomette. E il giogo della sottomissione è un arco di pietra. Duemila anni ed è ancora lì, appena sotto l’acropoli di Susa, la cui sacralità non è riuscito a violare fino in fondo. È ancora lì, e incornicia la vetta del Rocciamelone, quasi a ingabbiarla, a reprimere entro i litici schemi del nascente impero romano la selvaggia fierezza di quei Celti montanari subiecti.

Sottomessi. Piegati nell’orgoglio. Né mancarono le rivolte di alcuni contro Roma.

Sottomessi. Ma saggiamente.

 

Alla morte di Cesare, le Alpi disegnavano ancora una mezzaluna bianca incuneata tra i territori assoggettati da Roma. Cesare aveva attraversato le Alpi, ma mai ne aveva varcato il suolo da conquistatore. Le sue legioni erano solo di passaggio. E i prati e i monti e i fiumi delle convalli rispondevano ancora all’autorità di signori di stirpe celtica. Re come Donno, i cui territori incorniciavano le valli della Dora e della Durance e le zone limitrofe.

I pugnali dei congiurati posero fine alla vita di Cesare nel 44 a.C., e le redini dello Stato, insanguinate dalla guerra civile, passarono ad Ottaviano Augusto. Donno si spense tra il 30 e il 20 a.C., e la guida del piccolo regno alpino passò a suo figlio Cozio.[2]

Ma ad Augusto quella mezzaluna bianca dava fastidio, e, consolidato il proprio potere, la sua prima mossa in politica estera fu di portare le aquile di Roma contro quelle alpine. La guerra fu rapace, spietata, e i suoi generali si sparsero sulle montagne. Nel 25 a.C. Aulo Terenzio Varrone Murena annientava l’eredità culturale dei Salassi della Valle d’Aosta vendendo schiavi i sopravvissuti al genocidio sul  mercato d’Ivrea. Nel 15 a.C., Druso e Tiberio, muovendo a tenaglia dal Norico e dalla Gallia, sterminavano i Reti e i Vindelici, e, contemporaneamente, Silio Nerva si occupava dei Camuni e dei Venosti. L’anno successivo toccò alle tribù delle Alpi Marittime.

Di fronte a una tale spietatezza, Cozio seppe destreggiarsi con abilità tenendo in scacco le legioni romane finché poté, ma senza precludersi la possibilità di trattare. E così, nel 13 a.C., quando le ostilità cessarono, attorniato dalla strage dei consanguinei, piegò il capo.

Piegò il capo, e Augusto lo risparmiò. Perdette la propria libertà, e di regale non gli rimase che il nome del padre, e la sua autorità fu riplasmata secondo gli schemi di Roma. Battezzato col nome romano di Marcus Iulius Cottius, l’ultimo re sotto le montagne divenne prefetto di Augusto; il suo regno divenne provincia, e alle sue genti venne concesso lo ius latii (che consentiva il matrimonio e il commercio coi Romani).

Tutto sommato, non andò poi così male. Segovii, Segusini, Belaci, Caturigi, Medulli, Tebavi, Adenati, Savincati, Egdini, Veamini, Venisami, Iemerii, Vesubiani e Quariati (questi, i popoli di Cozio riportati sull’iscrizione dell’arco di Susa) gli tributarono una venerazione quasi religiosa per secoli. Tanto che ancora nel 355 d.C. un soldato romano di nome Ammiano Marcellino, passando per Susa, poté scrivere che “la tomba di questo piccolo re, costruttore di strade, si trova a Susa vicino alle mura ed i suoi Mani sono venerati sia perché governò il suo popolo con giustizia, sia perché tramite la sua alleanza con Roma assicurò una pace duratura”.

Σ.

 

[1] Virgilio, Eneide, 6.851-853. [Ricordati, Romani, di reggere le nazioni con la tua autorità / (queste saranno le tue arti) e d’imporre un ordine alla pace, / risparmiare chi si sottomette e debellare i superbi]

[2] Pierangelo Lomagno, Il regno dei Cozii. Una dinastia alpina di 2000 anni fa, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 1991, pp. 63 ss. Cf. Natalino Bartolomasi, Valsusa antica. Volume I, Editrice Alzani s.a.s., Pinerolo  1975, pp. 87 ss.